È la festa dell’Ascensione, anche se la pagina del Vangelo che stiamo per commentare non ne parla espressamente. È piuttosto la prima lettura del lezionario di oggi, quella dagli Atti degli Apostoli, che all’inizio descrive questo ultimo mistero della vita di Cristo; ricordiamo solo il v. 9: «Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi».
Invece, il vangelo di questa domenica ci dà occasione per leggere, l’unica volta nel lezionario domenicale, la finale del vangelo secondo Matteo. Il modo in cui termina un racconto è fondamentale. Non avrebbe senso seguire una storia se non si sapesse “come va a finire”: si rimarrebbe con un senso di incompiutezza che lascerebbe tutto incerto. Allo stesso modo, ogni narrazione ha un suo finale proprio. Lieto, come l’happy ending di alcuni film, oppure triste, o a sorpresa, e così via. Solo apparentemente uguale, ogni vangelo ha invece la sua finale, quella che chiude il cerchio del racconto che l’Autore sacro ha elaborato e che lo caratterizza rispetto agli altri vangeli. Dopo questo breve excursus, torneremo alla finale di Matteo.
Marco, il vangelo più antico, finisce in un modo che ci sorprende ogni volta che lo leggiamo. Rimane infatti “sospeso”, con le donne che «non dissero niente a nessuno, perché avevano paura» (Mc 16,8). Qualsiasi commento al vangelo di Marco infatti ci spiega che i versetti che vanno da Mc 16,9 fino a 16,20, ovvero la cosiddetta “finale lunga”, non vengono dalla penna di Marco (lo si capisce dallo stile, dal vocabolario, e soprattutto dal fatto che sono assenti nei manoscritti più antichi e più importanti) ma sono una finale aggiunta posteriormente, e comunque considerata canonica a tutti gli effetti. L’evangelista presumibilmente aveva pensato ad un finale che lasciasse intendere come la predicazione dipenda dal coraggio della Chiesa: andranno le donne ad annunciare che è risorto?, ci si chiede nel chiudere il libro di Marco. I credenti di oggi sono nella stessa situazione: anche questi avranno paura? Ma altre proposte sono state fatte per spiegare il modo brusco in cui finisce il Secondo vangelo.
La finale di Luca è quella che meglio racconta l’episodio celebrato oggi nella liturgia: l’Ascensione; questa sarà ancora narrata (sempre da Luca) in At 1,9-12. Gesù, secondo il finale di questo vangelo, dopo aver benedetto i suoi, «si staccò da loro e fu portato verso il cielo» (Lc 24,50); da qui la grande gioia dei discepoli, che tornano a Gerusalemme per rimanerci e per lodare Dio nel tempio (cf. 24,51-52). Non vanno in Galilea, come invece si dice nei vangeli di Matteo e in quello di Giovanni, ma rimangono nella città santa, da dove poi ripartirà l’avventura della comunità primitiva narrata nel libro degli Atti degli apostoli.
Giovanni ha una finale adatta a tutto l’insieme del suo racconto: «Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù, che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere» (21,25). Un finale vero e proprio in effetti si trovava già al capitolo precedente (20,31, «Questi [segni] sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome»), ma le parole del redattore che abbiamo sopra riportato non sono superflue. Ci dicono che la vita di Gesù – come, per analogia, la vita di ogni uomo e di ogni donna – non può essere racchiusa in un libro. Se il mistero di ogni esistenza non si esaurisce nel fatto che venga raccontata, nemmeno il mistero della vita di Cristo può essere racchiuso in un solo Vangelo. Ecco perché ne abbiamo quattro, ma ecco, soprattutto, che comprendiamo come Gesù sia una persona viva, come l’agnello dell’Apocalisse, che non ama i libri “chiusi” (cf. Ap 5,9), ed è anzi l’unico capace di aprirne i sigilli per poterli finalmente leggere e coglierne così il significato profondo.
Matteo, finalmente, chiude il suo vangelo con un’inclusione che ci riporta al suo inizio. Le ultime parole di Gesù in Matteo sono molto importanti, così come le sue prime. Diversamente dagli altri vangeli, Gesù apre la bocca per la prima volta dicendo al Battista: «Lascia fare per ora, poiché conviene che così adempiamo ogni giustizia» (Mt 3,15). Gli esperti hanno notato che la parola “giustizia” è alquanto significativa per il Primo vangelo, dove occorre sette volte. Qui dice che Gesù, da vero ebreo, è venuto per compiere ciò che sta scritto nella Legge e nei Profeti (cf. Mt 5,17), che Gesù infatti non è venuto ad abolire.
Le ultime parole di Gesù ai suoi, invece, hanno a che fare con il suo essere con loro «fino alla fine del mondo» (28,20). L’espressione è tipicamente matteana. In essa è rievocato l’annuncio dell’angelo a Giuseppe, secondo il racconto dell’inizio del vangelo, quando questi diceva: «Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele, che significa Dio con noi» (Mt 1,23). Invece le ultime parole di Gesù nel vangelo secondo Matteo – dopo l’esortazione a istruire e battezzare tutte le genti – suonano così: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni…». Quel Messia che secondo la profezia dell’angelo è con noi davvero è Gesù di Nazaret, il crocifisso risorto, che in virtù del potere che gli è stato dato in cielo e in terrà può dire di essere con noi per sempre.
«La finale dell’evangelo (28,18-20) è un luogo privilegiato per discernere il progetto teologico di Matteo. Io sono con voi: questa è una formula di alleanza. Sempre, quando si parla dell’alleanza nell’AT, si dice che il Signore l’ha contratta o sancita sul Sinai con noi (immanu: cf. Dt 5,2-3). Matteo ha molto cara questa terminologia dell’alleanza, e la esprime attraverso tutto il suo evangelo, dall’inizio alla fine» (Alberto Mello). L’alleanza con noi diventa quindi una certezza, una sfida e una speranza per tutti noi credenti. Noi che l’abbiamo seguito siamo sfidati ogni giorno a trovare il luogo dove è con noi, con quella presenza discreta e silenziosa e spesso nascosta. La speranza sta nel fatto che egli «tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (At 1,11). La certezza riposa nelle Sue ultime parole.
Ma guardiamo più da vicino il testo.
Gesù si avvicina (v. 18). Il verbo «avvicinarsi», prosérchomai, caratterizza non solo il lessico di Matteo (cinquantadue occorrenze contro le dieci di Luca e le cinque di Marco), ma anche la sua teologia. È significativo, tra l’altro, che per sua ultima occorrenza nel vangelo, il verbo sia impiegato per dire che è il Risorto, questa volta (come già dopo la trasfigurazione, in Mt 17,7), ad avvicinarsi ai discepoli. In Gesù, Dio si rende presente e si affianca all’uomo afflitto dall’ignoranza, dalla malattia, dalla sofferenza, dal peccato. Nei racconti di miracolo, nei dialoghi con i discepoli, negli incontri con le persone che si portano a Gesù, negli scontri con gli avversari prosérchomai costituisce un rimando continuo all’annuncio iniziale, e nello stesso tempo diviene ponte di collegamento con la promessa finale: “io sono con voi tutti i giorni” (28,20). Mediante questo verbo Matteo ricorda, richiama e ribadisce continuamente la presenza in Gesù dell’Emmanuele, del Dio con noi».
Il dubbio dei discepoli. Alcuni discepoli fanno ancora fatica a coniugare quanto è successo nei giorni della passione con la presenza del Risorto e dubitano (edístasan: 28,17), come già Pietro, che dubitava di poter camminare sulle acque (edístasas: 14,31). Gesù rimproverava Pietro della sua poca fede, ma è da questa poca fede che ora i discepoli devono ripartire per poter seguire il maestro, perché tutti – con Pietro – sono sprofondati nel mare della loro povertà e hanno abbandonato il Signore. Tutti lo adorano, ma tra essi vi sono coloro che hanno poca fede (e sono “dentro” la Chiesa, non fuori di essa).
Fare discepoli i pagani. Per Matteo, diversamente dagli altri vangeli, il ritorno in Galilea è importante. In questa terra tutto aveva avuto inizio: Gesù aveva cominciato a insegnare e fare miracoli, e lì aveva inaugurato la sua missione a Israele. Ora, da qui tutto riprende, quando essa è stata ormai portata a termine attraverso il sacrificio del Messia di Israele. Dopo la passione e la risurrezione, l’arrivare del Risorto e dei suoi discepoli è l’inizio di una nuova missione. Questa volta, e per la prima volta, è la missione ai non ebrei, ai pagani. Da quel monte i discepoli sono inviati a fare discepoli e a battezzare tra tutti i popoli della terra. È la svolta epocale del primo vangelo, la “Pentecoste” di Matteo: la buona notizia, che doveva anzitutto essere annunciata agli ebrei («Non andate sulla strada dei pagani e non entrate in nessuna città dei samaritani; andate invece alle pecore perdute della casa d’Israele»: 10,5-6), ora è per tutti, come si evince dall’uso del termine éthnos («popolo»; al plurale: «pagani», «gentili»). L’apertura ai gentili rappresenta una vera novità, che può essere intesa almeno in due sensi. Il recupero da parte della comunità cristiana dell’originaria apertura della salvezza a tutti, indistintamente, compresi, dunque, i non circoncisi. Il progetto di salvezza di Dio, che era iniziato con la benedizione data ad Abramo e aveva un valore universale, ora è portato a compimento. Se dal punto di vista di una lettura storico-critica forse hanno ragione coloro che affermano che la missione ai pagani non è gesuana, da un punto di vista della lettura canonica e teologica del testo si dovrà invece ammettere che il piano di Matteo è perfettamente coerente. Se Gesù aveva vietato la missione dei suoi ai pagani, ora, come Giona che risale dopo tre giorni dal ventre della terra, può autorizzare la missione a “Ninive”, a coloro che prima non erano destinatari dell’annuncio. Si doveva compiere prima la missione di Gesù per Israele, e poiché il Messia Servo ha dato la sua vita per il suo popolo, allora – avendo concluso la missione di radunare i dispersi – può dedicarsi alle altre pecore che non sono di quel popolo (cfr. Gv 10,16).
Insegnamento e battesimo. La missione verso i gentili si compie insegnando ai nuovi discepoli le cose che Gesù ha comandato ai suoi e conferendo loro il battesimo. Non basta però il rito, se non è accompagnato da un’adeguata istruzione, e l’insegnamento non è sufficiente da solo, se non vi è una totale immersione nel mistero di Cristo. Anche se si tratta di un argomentum ex silentio, riteniamo che sia significativo il fatto che qui vi sia un richiamo solo al rito d’immersione e non alla circoncisione. Come si è già visto per il caso del detto di Gesù ai farisei in 23,15 (vedi commento), la discussione sui riti di ammissione dei pagani era accesa nel giudaismo del tempo di Gesù, e anche nella Chiesa delle origini. Il battesimo, in ogni caso, era un rito comune nell’ambito dell’ebraismo, caricato di significati di purificazione rituale (vedi il battesimo di Giovanni – con le dovute distinzioni per Matteo; vedi commento a 3,6 – o i bagni di Qumran) e quello cristiano non assume il significato di rottura con l’ambiente in cui viene a formarsi, anche se acquista un ulteriore significato a riguardo del “Figlio” Gesù.
Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Nella Chiesa la comprensione del mistero trinitario si svilupperà gradualmente, a partire anche dalla formula tripartita di 28,19, che diventerà la base della liturgia del battesimo: «I cristiani sono battezzati nel nome – e non nei nomi – del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (Professione di fede di papa Vigilio). Tale credenza si dovrà poi confrontare con il rigoroso monoteismo ebraico e il politeismo dei pagani. In particolare, «il problema trinitario si acutizza quando, tra la fine del III secolo e l’inizio del IV, nel tentativo di illustrare nei termini della cultura e della filosofia greco-ellenistica il mistero del Dio rivelato da Gesù Cristo, si rischia di comprometterne l’originalità e la verità, ricadendo, pur con ottime intenzioni, in modelli culturali pre-cristiani» (P. Coda). Sarà la sfida più grande, che porterà ai concili di Nicea e di Costantinopoli II, ma anche, purtroppo, alla separazione definitiva della Chiesa dalla sua radice giudaica. La formula trinitaria è presente anche nel testo della Didachè, un documento che per M. Morselli e G. Maestri potrebbe addirittura essere più antico del vangelo di Matteo, e che appartiene alla stessa area giudaico-cristiana. Lì leggiamo: «Riguardo alla Tevilah [il battesimo], battezzate così: dopo aver esposto tutti questi precetti, battezzate in acqua viva nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Se non hai acqua viva, battezza in altra acqua: se non puoi in fredda, in calda. Se non ne hai né dell’una né dell’altra, versa sul capo tre volte acqua nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (7,1-4).
Con questo vangelo, Dio sarà annunciato come uno e trino. Le ultime parole di Gesù, nel primo vangelo, dicono della presenza della Trinità nella storia attraverso la sua presenza, e chiudono la storia raccontataci da Matteo per aprire a un’“altra storia”, tutta ancora da scrivere. In questa storia non manca Gesù, il cui altro nome è Emmanuele (cfr. 1,21.23), Dio-con-noi: Dio «con voi tutti i giorni, sino alla fine del tempo» (28,20).
- Fonte del commento – il sito “La Parte Buona”
- Commento a cura di p. Giulio Michelini