Padre Giulio Michelini – Commento al Vangelo di domenica 20 Settembre 2020

La prima parabola della vigna

Il lezionario di oggi ci fa compiere un salto nel vangelo di Matteo, e tralasciando il cap. 19 ci porta a quello ventesimo. Intanto abbiamo appreso che Gesù si sta sempre più avvicinando a Gerusalemme: ha lasciato la Galilea ed è ormai “nel territorio della Giudea, al di là del Giordano” (Mt 19,1). Non sappiamo esattamente dove si trovi questo luogo, ma immaginando che Gesù, come i molti pellegrini della Galilea che si recavano in pellegrinaggio alla città santa, non potesse attraversare la Samaria, possiamo ritenere che sia appunto ad est del Giordano, dove però abitavano molti ebrei: a buon titolo questa zona poteva essere considerata “territorio della Giudea” (Hagner). Qui Gesù insegna, come ha fatto anche nella sua Galilea, e racconta la parabola degli operai che soltanto il Primo Vangelo, quello di Matteo, ci tramanda.

Questa parabola è la prima di tre parabole che hanno diversi punti in comune nel vocabolario e, soprattutto, la stessa ambientazione, quella della vigna; le altre due parabole della vigna sono quella detta “dei due figli” (21,28-32) e quella “dei vignaioli omicidi” (21,33-45). Di queste tre parabole, le prime due sono esclusivamente matteane.

La prima parabola della vigna ha il suo inizio nel detto di 19,30 («Molti che sono primi saranno ultimi e gli ultimi primi»), col quale l’evangelista fornisce l’ermeneutica per comprendere il senso del racconto; il detto si ritrova, poi, ma in una forma rovesciata, alla fine della parabola, in 20,16 («Molti che sono ultimi saranno primi e i primi ultimi»), cosicché essa è incorniciata da questi insegnamenti. Il contesto in cui è narrata – oltre a essere il viaggio di Gesù a Gerusalemme – non è meglio specificato e ciò lascia aperta la parabola a molte interpretazioni (ne sono state avanzate una decina, tutte diverse tra loro). Ha ragione, pertanto, chi ha detto che questa parabola lascia largo spazio alla riflessione e che ha una sua autonomia, che porta il lettore a interpretarla a diversi livelli.

Un primo livello interpretativo riguarda la logica del Regno, che è paradossale, e perciò per comprendere la parabola ci si deve convertire a tale modo di pensare. I luoghi comuni qui vengono smentiti, e le certezze su cui si basa la propria sicurezza sono messe in crisi. A questo livello, la chiave della parabola è il rovesciamento (primo = ultimo), lo stesso che si trova nella storia del libro di Ester: chi doveva essere condannato allo sterminio (Mardocheo e Israele) trionfa, e chi invece (Aman) ha tramato per distruggere Israele, viene appeso al patibolo. Nel Talmud babilonese vi è il parere di un rabbino, per il quale quando si celebra la festa di Purim (Est 9) è obbligatorio ubriacarsi, fino ad arrivare a non distinguere più tra “maledetto Aman” e “benedetto Mardocheo”: nella vita, nella logica di Dio e nella storia della salvezza, non si sa mai chi è primo e chi è l’ultimo. Sembra dunque funzionare l’ipotesi di chi ha studiato da vicino le parabole in Matteo, e che vede la storia di Ester come contesto della parabola del banchetto di nozze di Mt 22, e alla quale Gesù potrebbe essersi ispirato. Il rovesciamento di cui si parla in quella storia e nella parabola matteana, però, non è dato dal caso, ma dalla giustizia e dalla bontà di Dio, come si vede da un altro possibile piano di lettura.

Un secondo livello riguarda la misericordia di Dio, le cui imperscrutabili decisioni – che però continuano a essere giuste («non sono ingiusto»: 20,13) – vanno al di là della comprensione umana: il padrone «può fare quello che vuole», perché è «buono» (20,15), e chi non accetta questa logica è «cattivo» come il suo occhio (ovvero: il suo modo di vedere le cose). Si intravvede qui un’idea che apre la via a un terzo livello interpretativo: quello del rapporto tra un gruppo di operai e un altro.

Un terzo livello di lettura della parabola riguarda la relazione reciproca tra gli operai e il metodo con cui questi vengono retribuiti. Nella letteratura rabbinica si trovano diverse storie con un contenuto simile, centrate tutte sull’impegno di chi lavora, o studia la Torà, come questo bell’esempio tratto dall’Etica dei padri: «Il giorno è breve, il lavoro molto, i lavoratori sono fannulloni, la paga è alta e il padrone è insistente. Non è compito tuo portare a fine il lavoro, ma non sei nemmeno libero di lasciarlo. Se hai imparato molta Torà, ti verrà data una buona ricompensa, e ti puoi fidare del tuo datore di lavoro per quanto riguarda la paga, ma sappi che la ricompensa dei giusti sarà data nel mondo a venire». Il messaggio è che ci si deve impegnare molto per ottenere un risultato, ma se Dio interviene, tutto è messo sottosopra e la paga promessa sarà data nel futuro. Da diversi studiosi però viene citata, a riguardo della parabola, soprattutto un’altra tradizione rabbinica, nella quale protagonista è proprio Israele e i pagani sono paragonati agli operai dell’ultima ora. Da questa idea prende l’avvio un ultimo livello di interpretazione.

Un quarto livello di lettura della parabola parte proprio dalla sua ambientazione, la vigna, e porta con sé tutta la semantica di questo simbolo. Esso è presente nell’AT in vario modo: la vite e la vigna sono tra i prodotti della terra promessa (cf. Dt 8,8); Israele nella sua giovinezza è paragonato ai grappoli d’uva trovati da Dio nel deserto (cf. Os 9,10); Isaia paragona Dio al padrone della vigna, che è Israele (Is 5,1-7) e una simile metafora si trova anche in Ger 2,21 e in Ez 17,1-10; 19,10-14. Flavio Giuseppe descrive la vite d’oro che adornava la facciata del tempio, e nella letteratura rabbinica la vigna è menzionata molte volte. Proprio per il fatto che questa rappresenta Israele, è necessario fare molta attenzione alle conseguenze teologiche che deriveranno dall’interpretazione del testo di questa e delle altre parabole, come si vedrà meglio di seguito. Ma, a guardar bene, nella presente parabola la vigna rappresenta Israele oppure è piuttosto – come scritto in Mt 20,1 – simbolo del regno dei cieli, e di quella logica di cui si diceva sopra?

Il fatto che il regno dei cieli possa essere rappresentato come un padrone che prende a giornata gli operai per la vigna ci riporta al contesto prossimo in cui la parabola è inserita, e mostra che tutte e due le letture sono possibili e non si escludono, come non si smentiscono tra loro i livelli di interpretazione visti sopra. La parabola degli operai dell’ultima ora è narrata da Gesù subito dopo il rifiuto del giovane ricco di seguire Gesù, al quale segue la domanda di Pietro sulla salvezza. Il ricco era una persona importante e istruita, era un “primo”, ma nel Regno diventa “ultimo”. Chi invece ha lasciato tutto per seguire Gesù, come Pietro, giudicherà con Gesù le tribù di Israele: da “ultimi”, diventeranno “primi” (ma nel mondo a venire: nella palingenesi, 19,28, nella vita eterna, 19,30). In modo analogo, Israele è stato chiamato da Dio e ha accolto per primo la sua offerta di elezione. Il padrone della vigna, però, non si stanca mai di chiamare, fino all’undicesima ora, e di chiedere anche ai popoli pagani di partecipare al Regno. Se questi entreranno nella vigna, dovranno essere accolti e onorati come “primi”.


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