A commento della pagina del vangelo odierno, pubblichiamo un estratto dal volume di G. Michelini – G. Gillini – M. Zattoni, I vangeli dell’infanzia di Gesù. Lettura esegetica e relazionale familiare, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2016.
Lettura esegetica (Giulio Michelini)
Mentre lasciamo al commento dei coniugi Gillini-Zattoni uno sguardo complessivo sulla pagina che ci accingiamo a leggere, noi ci soffermiamo solo su due questioni particolari.
La prima riguarda il contesto cultuale in cui avviene la cosiddetta «presentazione di Gesù» al Tempio, ovvero quello del riscatto del primogenito e della loro purificazione rituale (Luca 2,22). Gesù, dopo la circoncisione (che Luca narra velocemente in 2,21), viene riscattato (apprendiamo dalla prima citazione compiuta dall’evangelista Luca) come ogni maschio, secondo quanto prescritto da Esodo 13,2 («Consacrami ogni essere che esce per primo dal seno materno tra gli Israeliti: ogni primogenito di uomini o di animali appartiene a me»), Esodo 13,15, ecc. Questo precetto prende senso dall’uscita di Israele dall’Egitto, durante la quale morirono i primogeniti degli Egiziani: da allora, i bambini sono riscattati con un’offerta sostitutiva, mentre gli animali sono sacrificati. Più complessa è la questione riguardante la purificazione della puerpera. Pertanto riportiamo integralmente il testo che ne parla:
Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla agli Israeliti dicendo: “Se una donna sarà rimasta incinta e darà alla luce un maschio, sarà impura per sette giorni; sarà impura come nel tempo delle sue mestruazioni. L’ottavo giorno si circonciderà il prepuzio del bambino. Poi ella resterà ancora trentatré giorni a purificarsi dal suo sangue; non toccherà alcuna cosa santa e non entrerà nel santuario, finché non siano compiuti i giorni della sua purificazione. Ma se partorisce una femmina sarà impura due settimane come durante le sue mestruazioni; resterà sessantasei giorni a purificarsi del suo sangue. Quando i giorni della sua purificazione per un figlio o per una figlia saranno compiuti, porterà al sacerdote all’ingresso della tenda del convegno un agnello di un anno come olocausto e un colombo o una tortora in sacrificio per il peccato. Il sacerdote li offrirà davanti al Signore e farà il rito espiatorio per lei; ella sarà purificata dal flusso del suo sangue. Questa è la legge che riguarda la donna, quando partorisce un maschio o una femmina. Se non ha mezzi per offrire un agnello, prenderà due tortore o due colombi: uno per l’olocausto e l’altro per il sacrificio per il peccato. Il sacerdote compirà il rito espiatorio per lei ed ella sarà pura”» (Levitico 12,1-8).
Dalla lettura del testo è chiaro che la purificazione riguarda solo la madre. Nel vangelo di Luca, invece, al v. 22, si legge della «loro purificazione». Ma a chi voleva riferirsi l’evangelista, con il plurale? A Maria e a Giuseppe? O a Maria e a Gesù? Sul piano filologico, la lezione è sicura, perché attestata dai migliori e più antichi manoscritti. Quei testimoni antichi che hanno sostituito il «loro» con «di lui (autou)», comprendendo cioè che ad essere purificato è stato Gesù, sembrano avere fatto una correzione che non ha senso. Molti commentatori si sono arresi di fronte all’anomalia: alcuni hanno ritenuto che Luca parlasse della purificazione di tutti e due i genitori, ma devono ammettere anche che «non vi è alcuna tradizione giudaica per la purificazione del padre» (Brown), altri considerano che Luca stia erroneamente generalizzando (Bovon), anche perché, non essendo un giudeocristiano, ma di origine greca, non aveva dimestichezza con le complesse pratiche cultuali ebraiche (Fitzmyer); altri ancora, pensano che il pronome originale fosse «di lei» (riferito a Maria), ma sarebbe stato poi sostituito con «loro» perché qualche scriba non poteva accettare l’impurità della Vergine madre. Per giustificare il «loro» già dall’antichità vi era però un’autorevolissima attestazione, quella di Origene († 254 d.C.), che ora, grazie alla ricerca di due studiosi, possiamo comprovare. Infatti, confrontando il nostro testo con antiche testimonianze, tra cui un manoscritto del Mar Morto e l’opera apocrifa Libro dei Giubilei, Baumgarten e poi, dopo di lui, Thiessen sono riusciti a dimostrare che al tempo di Gesù si credeva che anche il figlio partorito fosse impuro, come lo era la puerpera. Luca, dunque, aveva familiarità con le pratiche di purità rituali ebraiche contemporanee, e ritrae i genitori di Gesù come una coppia che poteva avere legami con quegli hasidim («pii»), dai quali deriveranno poi anche i farisei e gli esseni.
Gioverà ora ricordare cosa comporti nel giudaismo l’impurità. La questione è così delicata, che preferiamo affidarci alle parole di un esperto in materia, Paolo Sacchi. Questi spiega anzitutto che nel sistema ebraico antico l’impuro è connesso non con qualcosa di sporco, ma con l’idea di sacro, soprattutto quando questo incute paura: «come nel cosmo agiva la forza tremenda del sacro, capace di uccidere chi ne venisse in contatto, allo stesso modo nelle cose, negli animali e nell’uomo c’era qualcosa in presenza della quale bisognava comportarsi con prudenza». Questa forza, che viene chiamata «impurità», non si trova solo negli animali, ma anche nel ciclo dell’esistenza: «esso si fonda sul sangue, dove ha sede la vita (“La vita della carne è nel sangue”, attesta Levitico 17,11). Tutte le sue manifestazioni principali sono impure: è impura la puerpera, l’atto sessuale e, in qualche modo, il sesso stesso che deve essere tenuto coperto, il cadavere». Dunque, quelle prescrizioni così lontane dal nostro modo di pensare, ma alle quali si sono attenuti anche i genitori di Gesù, e poi Gesù stesso nella sua esistenza storica, erano un modo per rispettare il mistero della vita e del divino. Le leggi riguardanti la purità o l’impurità servivano perché il fedele ricordasse che la vita appartiene a Dio, in ogni momento e in ogni circostanza, dall’inizio fino alla sua estinzione naturale. A seguito di queste credenze, venivano pertanto messi in atto dei meccanismi per potersi tutelare dal pericolo del sacro/impuro, quali per esempio il passaggio del tempo, le purificazioni e le offerte sacrificali, come quelle di cui si parla nella nostra pagina. Ciò non toglie, come diranno i coniugi Gillini-Zattoni più sotto, che l’impurità della puerpera possa avere anche un significato relazionale importante, ovvero il rispetto della situazione in cui si viene a trovare una donna che ha appena vissuto un’esperienza così cruciale come il parto.
La seconda questione che affrontiamo è legata alla profetessa Anna, che insieme a Simeone accoglie Gesù nel Tempio: tra i giusti di Israele, sono i due che hanno la grazia e la capacità di riconoscere che in quel piccolo bambino è nascosto un mistero. Sulla figura di questa anziana vedova è intervenuto in modo originale un biblista, che ha confrontato un’anomalia che si trova nel testo lucano con le tradizioni giudaiche antiche riguardanti Mosè. Nel suo bel commento Vangelo e tradizione rabbinica, Michel Remaud si accorge infatti di un elemento che spesso viene sottovalutato: l’appartenenza di Anna alla tribù di Aser. Certo, si potrebbe semplicemente dire che la menzione del suo lignaggio serva a sottolineare che veniva da una famiglia prestigiosa; ma la tribù di Aser non aveva un’importanza particolare, e infatti è l’ultima ad essere benedetta da Mosè nell’elenco delle tribù (Deuteronomio 33,24).
Prendendo il nome dal secondo figlio di Giacobbe (l’ottavo, in ordine di nascita) avuto da Zilpa, la schiava di Lia (Genesi 30,12), la tribù vantava un nome che aveva a che fare con la beatitudine: ««Per mia felicità! Certamente le donne mi chiameranno beata». E lo chiamò Aser» (Genesi 30,13). Qui il gioco linguistico è, in ebraico, nell’assonanza tra le espressioni «Per mia felicità (be-oshrì)», «beato» (ashrè) e il nome della tribù (ashèr). La tribù, secondo il libro di Giosuè, occupò i territori in Galilea a nord del Carmelo, fino alla regione libanese di Tiro. Insieme alle altre tribù del nord, anche quella di Aser scomparve alla caduta di Efraim, sette secoli prima di Cristo, con la deportazione in Babilonia. Basterà leggere qualche seria pubblicazione sulle dieci tribù perdute (come quella di Ben-Dor Benite, pubblicata a Oxford nel 2009), per vedere come questo argomento abbia alimentato leggende, visioni, esplorazioni e ipotesi (da quelle più critiche e documentate, a quelle che vedono i discendenti delle tribù del Nord sopravvivere negli indiani d’America…).
Riassumendo, mentre Luca non precisa da quale tribù venisse Simeone (il fatto che benedica la famiglia di Gesù implica forse che era un sacerdote?, ma nulla nel testo è decisivo per affermarlo), stranamente sottolinea invece che «Anna, figlia di Fanuele» era «della tribù di Aser». Luca sembra conoscere le tradizioni ebraiche antiche, «per cui si può pensare che ciò che dice della profetessa nel suo vangelo contenga un’allusione implicita alla figlia di Aser. Nel momento in cui Dio compie la promessa fatta ai padri (Luca 1,72-73) e “visita” il suo popolo per liberarlo (Luca 1,68.78), una profetessa ‒ figlia di Aser e “avanti negli anni” ‒ riconosce il salvatore di Israele» (M. Remaud). Ma a quale figlia di Aser ci si sta riferendo? A quella che viene nominata due volte nella Bibbia, col nome di Serah. Costei, secondo Genesi 46,17, era scesa in Egitto con Giacobbe e la sua famiglia, ma stranamente poi compare – secondo la cronologia biblica – quattro secoli dopo, all’uscita degli ebrei dall’Egitto, nella lista del libro dei Numeri («La figlia di Aser si chiamava Serah»: Numeri 26,47)!
Tra le tante suggestive leggende midrashiche di cui è protagonista Serah, ne ricordiamo la principale, che aiuta a leggere il racconto dell’infanzia del vangelo di Luca. Infatti, secondo l’esegesi giudaica, è grazie a lei, Serah, che Mosè viene riconosciuto dagli Israeliti come l’inviato di Dio. Con un modo di procedere nel ragionamento molto complesso, e una logica tipica dell’interpretazione rabbinica, si vedono in questi due nomi che compaiono a secoli di distanza la stessa donna, e quindi si arriva a credere che Giacobbe, prima di morire in Egitto, avrebbe confidato al figlio Giuseppe i segreti per riconoscere il futuro liberatore dalla schiavitù in quella terra. Serah, della tribù di Aser, quindi, non muore, e custodendo quel segreto, riconosce dopo secoli Mosè come salvatore di Israele.
Qualche tratto di quella donna, segno della promessa di liberazione fatta ai discendenti di Giacobbe/Israele, si ritrova nel volto della profetessa Anna, allorquando «parlava del bambino a tutti coloro che attendevano la liberazione di Gerusalemme» (Luca 2,38). Anna, poi, se non ha l’età di quattrocento (sic!) anni, è molto anziana, e il greco di Luca a riguardo è curioso: «non è chiaro se sia vedova da ottantaquattro anni (avrebbe così centocinque anni […]), oppure abbia ottantaquattro anni» (Crimella). Come le altre quattro profetesse del Primo Testamento, Maria, la sorella di Mosè (Esodo 15,20), Debora (Giudici 4,4), Hulda (2 Re 22,14), e la moglie del profeta Isaia (Isaia 8,3), Anna è, in ogni caso, profetessa: riesce a vedere – coi suoi occhi di anziana – e ad annunciare la fedeltà di Dio, lei, che chissà da quanto tempo stava nel santuario ad attendere la redenzione del suo popolo.
Lettura contestuale familiare (G. Gillini – M. Zattoni)
La relazione sacra
Ed ecco la prima visita del Signore al suo Tempio! In questa visita è portato in braccio, preso in braccio, accolto e riconosciuto. E tutto questo costituisce una prova, come vedremo.
La donna – come Giulio Michelini ha spiegato sopra (e con lui, abbiamo appreso, anche il bambino) – veniva purificata non perché impura per via di una contaminazione sessuale o perché le regioni del parto hanno a che fare con i genitali “sporchi”, ma perché ha avuto a che fare con lo spargimento di sangue, principio di vita. Interpretando forse con un tantino di polemica potremmo anche dire che è il maschio (le regole sacerdotali sono maschili) che ha paura di tutto quel sangue, al punto che per quaranta giorni se ne deve stare lontano dalla donna, temendone la contaminazione fino al nuovo mestruo. E ciò può essere davvero utile per lasciar riposare la puerpera, il cui sistema psichico-fisiologico è tutto centrato sul neonato; pensiamo solo al fenomeno stupendo della lattazione!
La comunità lucana trova che il Bambino non sia nato dal nulla, ma è inserito in un popolo, in tradizioni, nella «Legge del Signore»; attraverso questa sottomissione alla Legge del Signore il nostro testo rivendica a buon diritto l’origine ebraica di Gesù.
Gesù dunque è portato in braccio per essere consacrato al Signore: è il rito che aggancia la generazione al suo aspetto sacro, che tiene ferma la verità per cui il generare non è affare esclusivamente umano e privato, ma un compito sacro; nel portarlo al Tempio (nel portarlo al battesimo) i genitori riconoscono che la relazione generanti-generato è sacra (come afferma lo psicoterapeuta Vittorio Cigoli), sia nella sua origine che nel suo esercizio. Tale sacralità dice che i due non hanno prodotto in proprio il bambino, non sono i suoi creatori, perché essi stessi hanno ricevuto come dono il generare e che, perciò, la relazione che stabiliscono non è manipolabile a loro piacimento, appartiene alla sfera del divino.
«Presentare il bambino al Tempio» non è un rito formale, ma un consolante riconoscimento poiché dice il «chi siamo» nella relazione con il bambino: coloro che ricevono e trasmettono, coloro che non si appropriano, non si sentono padroni del figlio, pur essendone responsabili e pur constatando in maniera legittimamente esaltante che il figlio dipende – quanto al permanere in vita – da loro. Ogni relazione genitore-figlio è sacra, nel senso di non manipolabile a piacimento (lo sfruttamento del figlio è quanto di più deteriore e corrotto si possa pensare) e nel senso del compito divino, cioè del riconoscere la propria (sudata) genitorialità come proveniente da un compito, da una missione.
L’incontro tra generazioni
Ma qui, dice il nostro testo, si realizza una coincidenza, una convergenza che ha in sé il carattere positivo di prova. Mentre i genitori camminano verso il Tempio, un’altra persona, per altra strada, si reca pure al Tempio: un anziano, Simeone; un’altra anziana, la vedova Anna, già c’era, come il testo ci presenta subito dopo: ambedue sono chiamati a riconoscere il Bambino. Prima di vedere in controluce in questo stupendo episodio un incontro per così dire tra generazioni (tra nonni e neogenitori), gustiamoci il testo.
Simeone converge verso il neonato, si trova lì proprio mentre arrivano i genitori del Bambino; appare una coincidenza, quello che noi miopi chiamiamo «caso». Il testo, però, legge dal di dentro: la guida è a carico dello Spirito; attenzione, è iniziativa di Simeone quanto alle sue proprie gambe e al respiro di tutta la vita, l’attesa della «consolazione di Israele», ma quanto al momento, il mandante è lui, lo Spirito, il quale – a quanto pare – per i nostri benefici incontri si muove con i nostri piedi e guarda con i nostri occhi.
Quando Simeone vide il Bambino, «lo prese fra le braccia». Immaginiamo: un solenne giusto e timorato di Dio anziano prende il neonato in braccio; ciò significa almeno due cose: che il neonato attira, ha un potere irresistibile, è la sua debolezza, la sua configurazione (testa grossa e membra tenere e morbide) che fa allargare le braccia, in un gesto di accoglienza e di contatto. Prendere in braccio (fare nido, toccare, accogliere, sostenere) è gesto tipicamente parentale che equivale a una sensazione primaria che tutti ci portiamo dentro, anche se ce la siamo razionalmente dimenticata: l’essere sollevati e tenuti dentro un contatto rassicurante.
Ma questo «prendere in braccio» vuol dire anche un’altra cosa: che i neogenitori non l’hanno trattenuto, come gesto possessivo, non avevano nulla da temere nel lasciarlo prendere in braccio alla generazione anziana. E questo è molto bello (ricordiamo dolorosamente una nuora che non voleva che i nonni prendessero in braccio il «mio neonato», perché lo sbaciucchiavano, lo toccavano… ed era riuscita ad avere anche il placet del pediatra… purtroppo però, su questa strada, il piccolo rimase poi non solo senza nonni, ma anche senza padre!).
L’appuntamento
Simeone dunque prende in braccio il piccolo e benedice Dio, trova in questo contatto una benedizione per sé e per le generazioni a venire; pronuncia così un canto stupendo, il Nunc dimittis, e due oracoli sul Bambino, interrotti dallo stupore dei genitori. E qui siamo a un’altra «annunciazione», cioè ancora una conferma per il cuore di questi genitori. In questo incontro, propriamente, è in azione lo Spirito, il Consolatore e il Suggeritore-interprete della salvezza; Simeone infatti, con gli occhi della carne, vede soltanto una coppia di genitori poveri (offrivano soltanto due colombe) con il loro neonato: come tante; qui non c’è nemmeno il segno della mangiatoia, il vero segno è tutto interiore ed è l’attesa da parte di quest’uomo.
Egli attende la «consolazione», cioè di poter cominciare a vedere che Israele, la sua gente, l’intera umanità non è abbandonata a se stessa, ha un appuntamento con la salvezza. Il vero segno è il suo sguardo da innamorato, quando percepisce che la salvezza (questo bambino!) è «preparata da te», è il frutto della passione di Dio per l’incontro sponsale con l’umanità. Allora gli occhi vedono «la Tua salvezza», il punto di arrivo delle generazioni della terra (tutti i popoli) portato sulle spalle di questo Bambino. Questo vedere coincide con l’accettazione di un congedo («Ora lasci, o Signore, che il tuo servo vada in pace»): ciò appare strano in una logica di possesso («adesso non voglio più morire… aspetto di vedere come crescerà… che cosa farà…»). Mentre è naturale nella logica dello Spirito: me ne posso andare, dice il vecchio, perché non lascio tutto in rovina, consegnato al non senso; ho visto che c’è la salvezza che passa di generazione in generazione. Ora posso andare, non sono necessario, posso tirarmi indietro. E contemplare. Il luogo verso cui vado con il Suo permesso è un luogo di contemplazione eterna per la salvezza.
Il padre e la madre di Gesù «erano meravigliati»: si lasciano di nuovo evangelizzare, non sono coloro che sanno già tutto, sono grati delle conferme che ricevono. E allora la benedizione del vecchio è ora su di loro e la parola del profeta è rivolta alla madre. Il doppio oracolo pronunciato per lei, a prima vista, è durissimo: questo Bambino sarà segno di contraddizione e a te una spada attraverserà l’anima. Alcuni esegeti osservano che nel quadro dei vangeli dell’infanzia questa è l’unica nota stonata rispetto all’esultanza e ai canti degli angeli. Invece ci pare che Simeone elevi a parola tutto il dramma degli inizi, altro che idillio rose e fiori: dal primo annuncio a Maria di una maternità che mette a repentaglio la sua stessa vita, al non avere posto nella nascita, alla solitudine del parto, alla mangiatoia (e Matteo aggiungerà nuovi spunti al dramma) tutto il quadro dei vangeli dell’infanzia è a tinte dure, violente: il nuovo sta soltanto nel fatto che il tutto può essere visto nella sua versione “celeste”, attraverso l’irruzione del cielo che vede “dentro” la storia.
Ebbene, cosa dice Simeone? Esattamente questo: egli è qui per la rovina e la risurrezione, egli svelerà «i pensieri di molti cuori»; ciò sarà la spada che attraverserà il cuore della Madre, associata alla sua missione, al suo destino. Ma che cosa vuol dire che «i pensieri di molti cuori saranno svelati»? I pensieri del cuore, nel linguaggio biblico, non indicano le emozioni, gli affetti cangianti: i pensieri del cuore sono forse le attese, le scelte di fondo della volontà, il ciò per cui vale la pena di vivere: cuore infatti per l’uomo biblico è il centro dell’io, l’unità delle sue scelte, il ciò per cui vive e ama. Ebbene, quel Bambino non sarà indifferente al cuore: o per lui o contro di lui; e ciò non potrà lasciare indifferente la madre. Il suo offrirlo al mondo, alle generazioni, non può essere esente dal dolore; ma nella contraddizione c’è anche la gioia, l’esultanza. I pensieri del cuore, come il grano e la zizzania – dirà il Figlio – non sono tutti contro di Lui. Anzi. Ci sarà chi sorprendentemente si deciderà per Lui, anche a costo della vita. «Chi perde la sua vita la ritroverà», insieme alla Madre che inizia il suo cammino di discepola. E che, grazie alla spada, può essere proprio, se lo vogliamo, Colei che ci aiuta a discernere quali nostri pensieri sono pro o contro il Figlio.
Uno sguardo da nonna
Ma ecco un’altra anziana, sulla cui figura si è soffermato sopra Giulio Michelini. Qui Anna mostra la parte femminile del contatto con il Bambino come generazione anziana, da nonna, per così dire; è dipinta come la vedova dedita al servizio del Signore (in controluce si può vedere la descrizione della vedova cristiana in 1 Timoteo 5,5), colei che abita nel luogo del Signore, come luogo suo proprio, come luogo dell’attesa. Per questo anche lei si mette sulle orme del Bambino, lo riconosce, loda Dio per lui. Il testo annota stupendamente anche un dopo dell’incontro: «parlava del bambino a tutti coloro che attendevano la liberazione di Gerusalemme», come dire: «È arrivato, io l’ho visto, c’è, è piccolo, fragile, bisognoso di incontro, ma è lui, il Salvatore». Finalmente! Anna, il cui nome significa «Dio fa grazia», è diventata la testimonial più entusiasta, una vera propagandista per questo straordinario arrivo.
L’incontro tra stirpi
Possiamo allora chiederci, in termini umani, che cosa c’entrano gli anziani in questo vangelo degli inizi: non sono essi al tramonto, non possono essere lasciati da parte? Detto in termini espliciti, i neo-genitori non possono cominciare il mondo da capo, cioè fare a meno dei nonni? Anzi, non devono dettar legge anche sui nonni? Qui siamo chiamati a riconoscere che non c’è nuovo inizio se non si innesta nella tradizione; nessuna famiglia nucleare può immaginarsi di essersi fatta da sola, il da dove provengono i genitori non è insignificante, non è ininfluente proprio sugli inizi del familiare. I figli devono poter prendere contatto con le loro radici, di più: oggi si dice che i figli sono l’incontro di due stirpi. È vero, da un punto di vista pratico-economico oggi si constata che difficilmente la nuova famiglia può fare a meno dei nonni, se non altro come baby sitter. Ma i nuovi genitori sono incanalati verso un eccesso di sospetto e di controllo sui genitori anziani, vorrebbero verso i piccoli omologazioni di comportamento, uniformità («se noi proibiamo i cioccolatini, perché loro glieli danno?»). Nella nostra cultura si ha sempre più paura del diverso, che invece è una ricchezza.
Possiamo elevare i due anziani che abbiamo incontrato nel nostro testo a metafora degli anziani delle due diverse stirpi: sia i genitori del padre sia i genitori della madre. Spesso questi incontri sono sbilanciati e non solo magari per legittime ragioni oggettive (nonni paterni, per esempio, che abitano lontano) ma per ragioni in qualche modo prevaricanti, come quando un genitore impone una coppia di nonni come non pericolosi, anzi come migliori rispetto ai nonni dell’altra stirpe. E così il genitore, diciamo, “vittorioso” dimentica che il bambino ha diritto (perfino in condizione di divorzio dei genitori!) all’altra metà delle sue origini.
I nonni, non ci stanchiamo di dirlo, non sono pericolosi, rappresentano l’antecedente cui essere grati, da riconoscere, proprio attraverso gli occhi del nipotino atteso. L’inizio non può che darsi in quest’incontro tra stirpi, ma questa è anche una prova, perché chiede ai neogenitori di lasciar cadere i loro esclusivi progetti e le loro paure. L’incontro tra stirpi è una benedizione.
A una condizione, che i nonni sappiano riconoscere e benedire il Bambino, che siano in grado di benedire la nuova genitorialità, di non porsi come indispensabili. In una parola, che siano in grado di pronunciare con pace e serenità il loro Nunc dimittis.