Le parabole del Regno dei cieli.
Le tre parabole del Regno
Seguiamo ancora il discorso parabolico di Gesù nel capitolo tredicesimo di Matteo, e troviamo nel lezionario di questa domenica tre parabole: quella della zizzania (con la sua spiegazione), a cui seguono quella del granello di senapa e del lievito. Queste parabole sono accomunate dallo stesso incipit, dove emerge la similitudine con il «regno dei cieli», ma anche da un lessico e contenuti simili.
In questo capitolo 13, il sintagma «regno dei cieli» ricorre sette volte (sulle trentadue in cui appare in tutto il primo vangelo). Tipicamente matteano, corrisponde all’uso sinagogale antico, già attestato nella seconda metà del I secolo con Yohanan Ben Zakkai, e testimonia l’origine giudeo-cristiana della comunità di Matteo. È difficile dare una definizione di questa espressione, perché sembra proprio che Gesù e il vangelo rifiutino di circoscriverla, scegliendo il genere parabolico per trattarne (per l’aggiunta con la formula «è simile a…»), e non un altro tipo di discorso. Un ulteriore problema nasce dalla traduzione del primo membro del sintagma: la parola basileía – oltre alla più nota idea di “regno” – può esprimere diversi concetti: “regalità”, “dominio”, “governo regio”, “potestà regia”, “reame”, “signoria”. Un’interpretazione dell’espressione «regno dei cieli» senza tener conto del suo retroterra biblico può portare fuori strada, perché può essere compresa in modo troppo vago e astratto oppure, all’opposto, magari trovandovi l’idea di un territorio delimitato sul quale Dio governerebbe. L’espressione “regno dei cieli” sembra voler dire che è Dio a governare “come” un re. Se dunque l’accento è sulla relazione tra chi governa ed è governato, solo in secondo momento vi è un riferimento alla storia o al territorio sul quale si esercita tale dominio. Nel vangelo di Matteo però è di particolare importanza anche la seconda parola dei due membri, “cieli” (ottantadue occorrenze in Matteo contro le diciotto di Marco e le trentacinque di Luca), che è spesso in dialettica con la “terra” ed è, nella simbolica biblica, il luogo di Dio, o il modo in cui ci si riferisce a Dio con una cincorlocuzione.
Resta da aggiungere che il raffronto tra (regno del) cielo e (quello della) terra è reso possibile proprio attraverso la parabola di cui si fa largo uso in questo capitolo. Ponendo il confronto tra la realtà del cielo e quella della terra, essa infatti cerca di guidare il lettore alla scoperta di un senso all’interno dell’intricato e difficile mistero della vita, ricercando in questa il meraviglioso come possibile. Il regno dei cieli diventa un mondo possibile a partire dalla realtà quotidiana, il teatro del processo di realizzazione di quel mondo del cielo (Andrea Andreozzi).
Il grano e la zizzania
La prima parabola è esclusivamente matteana, ed è un’allegoria che mostra come “funziona” la storia del mondo e del Regno dei cieli. Notiamo in primo luogo che tutto accade mentre si dorme («mentre tutti dormivano», Mt 13,25), senza piena coscienza dell’uomo, ovvero, senza che questi si possa pienamente rendere conto dell’intervento del nemico che semina zizzania. Non che gli uomini siamo stupidi, tutt’altro: si vuole forse dire che a noi non spetta mai la comprensione definitiva della realtà. Infatti, non si conosce il tempo nel quale il figlio dell’Uomo ha seminato il grano buono, e la semina della zizzania è compiuta di notte, che nella Bibbia è spesso il momento dei sotterfugi e dei ladri, dell’insonnia dei malfattori ma anche lo spazio in cui avviene qualcosa di cui non si è pienamente consapevoli. E la zizzania, di notte, viene seminata da un nemico.
Esiste infatti un nemico. Questo è avvolto dall’oscurità, non se ne vedono i contorni, ma soprattutto non si sa da dove venga: c’è e basta, come il serpente che Adamo ed Eva incontrano perché è già nel giardino. Ma una cosa è certa: il nemico non è voluto da Dio, non viene da lui, perché fa il contrario di quello che Dio compie, e, anzi, è proprio definito «il suo nemico» (Mt 13,25). Il credente così deve affrontare non solo gli ostacoli “naturali”, quelli che riguardano la propria esistenza, i limiti che impone la vita, ma anche chi non vuole il suo bene: l’esperienza cristiana assume i contorni di una lotta contro il Male.
La parabola però si apre alla speranza: insistendo nel dire che il campo è del Seminatore, è davvero suo («ha seminato del buon seme nel suo campo»; 13,24), Matteo sottolinea che il mondo è nelle mani del Figlio dell’uomo. È il Signore che se ne dovrà preoccupare, e non si lascerà sfuggire di mano il raccolto buono.
Poiché la realtà nel suo complesso non può essere pienamente afferrata dall’uomo, non si dà allora lo spazio ad una soluzione definitiva umana per l’oggi: bisognerà aspettare domani il giudizio di qualcun’altro. Di fronte all’incombere del male, della zizzania che cresce e che forse è molto più evidente del grano buono, quella che i servi propongono è una soluzione, appunto, “da servi”, non da discepoli: «Vuoi dunque che andiamo a raccogliere la zizzania?» (Mt 13,28). Ma non deve accadere che per eliminare il male anche il bene subisca danno: si deve piuttosto attendere la fine del mondo: «Il grano e la zizzania, cioè il bene e il male, crescono insieme in un intreccio che non spetta all’uomo districare. Lo farà il Signore a suo tempo» (Bruno Maggioni). Certo, questo ci sconcerta: perché la resa dei conti non può aver luogo subito, perché Dio non distrugge i cattivi e sin da ora non esalta i buoni? Perché il male con il quale lottare ogni giorno? Perché le prove, la tentazione, la lotta e l’insicurezza del non poterne uscire vittoriosi? Questa parabola è come un inno alla pazienza, e dice del martirio a cui ogni uomo è sottoposto nella sua persecuzione quotidiana.
Vi è però un’altra notizia importante nella nostra parabola: il mondo è destinato a finire. Di fronte alla nostra realtà, sempre più giocata sul quotidiano e sui bisogni immediati da soddisfare, quest’aspetto è di un enorme significato: «La mietitura rappresenta la fine del mondo, e i mietitori sono gli angeli» (Mt 13,39). Non c’è un per sempre delle realtà terrene, tutto ha una fine, tutto è sottoposto alla caducità. E nel mondo, oltre all’incombere del male nella sua forma di seminatore di zizzania, vi è anche una misteriosa e buona presenza angelica. Non siamo abbandonati alla nostra sorte, e gli inviati di Dio si mostreranno finalmente presenti così come, anch’essi mossi dalla pazienza, hanno partecipato nel segreto alla lotta degli uomini.
Dietro un semplice racconto che parla di campi e di semi, è nascosto il segreto del nostro mondo e del Regno. Quella della zizzania e del grano è senz’altro, nel capitolo tredicesimo di Matteo, la parabola più escatologica di tutte, quella che apre il cuore alla prospettiva futura. Ma ha anche un forte senso legato alla vita della Chiesa e della comunità dei credenti: «Matteo vuol spiegare come mai né il mondo né la stessa chiesa siano fatti solo di giusti, e come si debba imparare ad accettare pazientemente questo fatto, pena un peccato ancora più grave di orgoglio e di presunzione» (Alberto Mello).
Le altre parabole
La seconda parabola del Regno: il grano di senape (13,31-32). La chiave per entrare nella seconda immagine che Gesù usa per illustrare il Regno – con una parabola che Matteo condivide con Marco e Luca – non è tanto la dimensione dell’albero di senape, che raggiunge al massimo un paio di metri di altezza (e quindi l’idea che gli uccelli vi nidifichino potrebbe essere iperbolica), quanto piuttosto il rapporto tra la piccolezza del seme (un classico esempio tra i rabbini, come testimoniano fonti antiche) e il frutto (p. es., le opere della fede; cfr. 17,20) o l’albero che ne diviene. Così è del frutto della semina della parola, qualunque esso sia. Altre interpretazioni che vogliono entrare nel dettaglio (l’albero è la Chiesa; gli uccelli sono i pagani che vi accederanno ecc.) non sono evincibili dal contesto (che tratta piuttosto del regno dei cieli e del suo umile inizio), nonostante alcuni testi veterotestamentari possano condurre a queste conclusioni (cf. p. es. Ez 17,23).
La terza parabola del Regno: il lievito (13,33). Questa parabola o detto di Gesù non si trova in Marco, ma è condivisa con Lc 13,20-21. Protagonista è, unico caso in tutte le parabole di questo capitolo, una donna, elemento simbolico che tra l’altro prepara lo scenario successivo, domestico, quello che si apre con Gesù che entra nella casa. Nella cultura del tempo di Gesù, però, l’immagine del lievito non doveva essere del tutto positiva, e anche nel primo vangelo sarà impiegata in questo senso (vedi Mt 16,5-12), come altrove nel NT (cf. 1Cor 5,7-8). Più in particolare, è ovvio che nella prassi liturgica di Israele, con la festa di Pasqua (secondo le prescrizioni di Es 12,18-20.34.39; Nm 28,16-17; Dt 16,3-4) il lievito rappresentasse qualcosa di impuro da eliminare dalla pasta. Ecco perché secondo alcuni esegeti Gesù sceglierebbe volutamente un simbolo ambiguo, per operare una specie di rovesciamento dell’ovvio e invitare a non dare nulla per scontato a riguardo della presenza del Regno nella realtà e nella storia. Ciò che sembra contare qui, infatti, è soprattutto l’idea che il lievito sia nascosto, ovvero il fatto che anche se il Regno non si dovesse vedere, c’è e opera sul “tutto”.
Le due parabole del seme e del lievito potrebbero essere legate da un filo nascosto. Curiosamente la quantità di farina di cui si parla nella parabola del lievito è esattamente la stessa quantità impastata da Sara per offrire un pasto ai suoi ospiti, secondo Gen 18,6. Alberto Mello elabora su questa corrispondenza una bella interpretazione, secondo la quale l’uomo che ha seminato il seme di senape è Abramo, il seme è la sua fede, e la donna rappresenterebbe pertanto Sara. Se tutto il mondo si regge sulla fede di Abramo (come si credeva allora), con Gesù e la sua Chiesa il Regno assumerà una dimensione universale, rappresentata forse dall’albero grande che evoca la profezia di Ez 17,22-23.
- Fonte del commento – il sito “La Parte Buona”
- Commento a cura di p. Giulio Michelini