La misura della fede
L’ultimo discorso di Gesù. Il testo si trova nella penultima parte del vangelo di Matteo – 21,1-27,66 – quella che inizia con l’ingresso del Messia a Gerusalemme e si conclude con la sua morte e sepoltura. Gesù, ormai, è a Gerusalemme, e nel piano narrativo di Matteo tiene lì l’ultimo dei suoi cinque discorsi. Il quinto discorso di Gesù (Mt 24,1-25,46), detto anche “escatologico” o “apocalittico”, sulla fine dei tempi, trae ispirazione da Mc 13, ma conserva del materiale proprio.
Parabole sull’attesa. La parabola di Mt 25,14-30 si trova alla fine di cinque brevi parabole che appartengono al quanto discorso di Gesù, tre brevi (24,37-51, quella del diluvio, del padrone e del servo) e due più ampie: 25,1-13 (la parabola delle nozze, dell’olio e delle vergini) e infine il nostro testo. In chiusura del discorso, subito dopo la parabola dei talenti, la grandiosa scena del “giudizio universale” (25,31-46). La parabola non è esclusivamente matteana, e si trova anche nel vangelo di Luca (19,12-27), collocata però mentre Gesù si trova ancora in viaggio verso Gerusalemme, e narrata «perché (Gesù) era vicino a Gerusalemme ed essi pensavano che il regno di Dio dovesse manifestarsi da un momento all’altro» (Lc 19,11). Rispetto a quella di Mt, Lc parla non di un padrone, ma di un uomo di nobile famiglia che parte per ricevere il titolo di re, e non di talenti ma di monete d’oro (o, nella precedente versione CEI, “mine”).
Una parabola. Abbiamo ascoltato una parabola di Gesù. Importante ricordare quale funzione comunicativa abbia tale forma letteraria. La parabola prevede spesso l’uso di un linguaggio iperbolico, con volute esagerazioni che possono anche arrivare a scandalizzare per la violenza che vi è implicata. Ci colpisce, qui, la punizione del servo malvagio. Ma colpisce anche la finale, che come spesso accade nei racconti fittizi parabolici, presenta un vero e proprio colpo di scena: il talento viene tolto a chi ne ha solo uno, e dato a chi già ne ha molti… Nel lettore sorge la domanda: che padrone è colui che si permette di umiliare in tal modo un suo servo, che in fondo ha agito prudentemente?
Di cosa parla la parabola: possibili interpretazioni. Come spesso accade interpretando un testo, ci troviamo di fronte a varie possibilità. Se poi si tratta di una parabola, queste aumentano in maniera esponenziale. Un primo livello di lettura è, per così dire, etico: si tratta di un insegnamento sulla vita e sul modo di viverla. Poiché il talento, un’unità di peso di 30-40 kg. che significa anche «ciò che è pesato» corrisponde a seimila denari, e poiché un denaro, secondo quanto Matteo stesso spiega in 20,2 (Matteo è molto preciso nell’uso delle monete, e nel suo vangelo ne sono elencate diversi tipi), è il corrispettivo della paga per un giorno di lavoro, si intende qui una somma ingente data in gestione ai servi. L’insegnamento da questo punto di vista è un invito a sfruttare ciò che viene donato, qualsiasi sia il suo “ammontare”: da cinque talenti (200 kg. d’oro) a uno solo (comunque il corrispettivo di 16 anni di stipendio…), senza invidiare quanti hanno di più. È anche un invito all’intraprendenza. Spiega Enzo Bianchi, secondo questa linea: ««non è un’esaltazione, un applauso all’efficienza (tanto meno a quella economica o finanziaria), non è un inno alla meritocrazia, ma è una vera e propria contestazione verso la comunità cristiana che sovente è tiepida, senza iniziativa, contenta di quello che fa e opera, paurosa di fronte al cambiamento richiesto da nuove sfide o dalle mutate condizioni culturali della società. La parabola non conferma “l’attivismo pastorale” di cui sono preda molte comunità cristiane, molti “operatori pastorali” che non sanno neppure leggere la sterilità di tutto il loro darsi da fare, ma chiede alla comunità cristiana consapevolezza, responsabilità, audacia e soprattutto creatività».
La fede e l’attesa. Un livello di interpretazione più profondo però riguarda la fede. Lo scopo della parabola poteva infatti essere, come per la precedente parabola delle dieci vergini, quello di un’esortazione per i credenti a vivere il tempo dell’attesa con fede. L’aggettivo pistós, al v. 25,21, infatti, reso bene con “fedele” (CEI), implica però il significato di “credente”, relativo cioè all’aver fede. Il primo significato è il più comune nell’ambito extracristiano e implica la coscienziosità e l’essere fidato, il secondo designa invece le persone credenti (fino a rappresentare, quando usato in senso assoluto, i cristiani, come, p. es., in Ef 1,1; Col 1,2; 1Pt 1,21). È proprio il contesto delle parabole che ci permette, qui (e anche in 24,45), di intendere anche in questo modo, diversamente da coloro che pensano che proprio il contesto vada esclusivamente a favore del senso di «fedeltà» o «affidabilità». In ogni caso, l’aggettivo è polisemantico, e veicola tutti e due i significati, anche per il fatto che Matteo lo usa quattro volte in correlazione con oligópistos (dove appare la stessa parola pistós, con il significato di «poco credente», «di poca fede», e non di «poco affidabile»).
La fede che opera è importante nel vocabolario matteano: Gesù nel primo vangelo parla della fede di coloro che credono in lui per poter essere guariti (quella del centurione in 8,10, del paralitico in 9,2, della donna emorroissa in 9,22, dei due ciechi in 9,29, della Cananea in 15,28), e incita i suoi – mai criticati perché hanno «poca fede» – ad averne di più (vedi nota a 6,30 e commento a 13,18-23).
La nostra parabola potrebbe dunque voler dire qualcosa sul credere o non credere in Dio nel tempo intermedio che separa dal giudizio. Il terzo servo, malvagio, non ha più fede, l’ha persa col tempo: si è dimenticato che quanto gli era stato affidato doveva essere investito perché portasse frutto per il padrone, ma anche a suo favore. Che la parabola tratti del dono della fede, si può indirettamente evincere anche da un altro testo del Nuovo Testamento, dove si dice che questo dono è misteriosamente “personalizzato”, al modo in cui racconta Gesù: «Dico infatti […] di nutrire una stima saggia di sé, secondo la misura di fede che Dio ha assegnato a ciascuno» (Rm 12,3).
Quale visione di Dio? La visione che i servi hanno di Dio merita attenzione, soprattutto perché il terzo servo, quello malvagio (del v. 18), vede Dio in modo molto critico. I servi buoni non si esprimono a riguardo, invece il malvagio spiega di aver avuto paura di investire il denaro, dicendo al Signore: «[So] che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso» (25,24). Da dove viene un’immagine così negativa di Dio? È veritiera?
Questa parabola ci provoca a domandarci se abbiamo ricevuto la visione di un Dio vendicativo ed esigente, che magari riproduciamo senza accorgercene. Visione che, invece, grazie alle parole di Gesù può cambiare.
- Fonte del commento – il sito “La Parte Buona”
- Commento a cura di p. Giulio Michelini