Gesù il seminatore.
Da questa domenica, e per tre settimane, il lezionario – facendoci saltare tutto il capitolo dodicesimo del Vangelo di Matteo – ci offre la lettura del tredicesimo, quello detto delle parabole del Regno dei cieli. Ci soffermiamo ora sull’intero capitolo, sull’inizio di esso, e poi sulla prima delle sette parabole.
Il capitolo tredicesimo contiene il terzo lungo discorso di Gesù in Matteo, quello centrale del vangelo. Incorniciato da un solenne incipit (cf. 13,1-3a) e da una conclusione che per molti esperti rivelerebbe l’autoritratto di Matteo (cf. 15,51-52), riporta sette parabole (il seminatore, 13,3b-9; la zizzania, 13,24-30; il grano di senape, 13,31-32; il lievito, 13,33; il tesoro, 13,44; la perla preziosa, 13,45-46; la rete, 13,47-50), che diventano otto, se si considera anche il detto sull’uomo-padrone di casa del v. 52; inoltre offre anche una introduzione al genere parabolico (13,10-17. 34-35) e i commenti a due delle parabole raccontate – quelle del seminatore (13,18-23) e della zizzania (13,36-43). La sezione si conclude al modo consueto con cui vengono chiusi i discorsi di Gesù in Matteo, con la formula «E avvenne che, quando Gesù ebbe terminato (questi discorsi…)» (v. 53).
Sono proprie di Matteo le parabole della zizzania, del tesoro, della perla e della rete, mentre le altre appartengono alla triplice tradizione sinottica, e sono una probabile rielaborazione di Mc 4. Generalmente si dice che queste parabole trattano del Regno dei cieli, ma questa definizione è incompleta, perché alcune non trattano del Regno (sono piuttosto «parabole della comprensione»), e poi perché così si rischia di separare il nucleo delle parabole dalla trama narrativa in cui queste sono inserite e dal contesto non solo di chi le ha raccontate, Gesù, ma soprattutto della comunità che le ha rivisitate e arricchite. Sul piano del vocabolario, oltre al lessema «parabola» (dodici volte), e «regno dei cieli» (sette volte), quelli che ricorrono più frequentemente nel capitolo sono i verbi «ascoltare» (sedici volte, la più alta occorrenza in un capitolo del Nuovo Testamento) e «comprendere» (sei volte), che appare anche in chiusura di questa sezione, nella domanda del v. 51: «Avete compreso tutte queste cose?». Da questo semplice elenco si capisce che non è sufficiente ascoltare, si deve comprendere per poter poi fare, agire per portare frutto: è forse questo uno dei significati della parabola del seminatore.
Per quanto riguarda il ruolo del capitolo 13 nel racconto di Matteo, già nel 1966 uno studioso aveva notato che esso rappresenterebbe una svolta nel vangelo, che porta Gesù – anche a ragione dell’avversione degli oppositori – a terminare la sua predicazione al popolo per concentrarsi invece sulla comunità dei suoi discepoli: sarebbe, a guardar bene, la situazione speculare della comunità dell’evangelista, che è entrata in contrasto col giudaismo (o una sua parte) ed è ormai costretta a difendersi come comunità del Messia che custodisce il seme della Parola, e a difendere il messaggio del Regno portato da Gesù. Al modo in cui Gesù usa le parabole per illustrare la situazione della sua missione, la comunità di Matteo risponderebbe ai problemi interni (vedi su questi il cap. 18 di Matteo) ed esterni (il rapporto col giudaismo normativo di alcuni farisei) con un’attualizzazione delle parabole di Gesù.
L’introduzione del capitolo, solenne quasi quanto quella che precede il primo discorso di Gesù (Mt 5,1-2), ambienta le parabole sulla riva del mare di Galilea – luogo che rievoca la chiamata dei primi discepoli (cf. 4,18-22) – vicino alla casa di Gesù (cf. 9,10), a Cafarnao. Sul piano simbolico esiste una grande differenza tra questa collocazione e quella del primo discorso (quello sul monte): qui il mare sembra riflettere, come qualcuno ha scritto, l’orizzontalità delle parole di Gesù e l’universalità dell’uditorio. Il mare, poi, è quell’elemento della creazione che è già stato “educato” all’ascolto delle parole di Gesù (cf. 8,23-27) e ha assistito alla vittoria del Regno sui demoni (cf. 8,32); ora, invece, sono i discepoli e le folle che devono ascoltare. Sul piano narrativo si tratta di una vera e propria pausa di riflessione nel racconto (il tempo del racconto è rallentato, e non si ha nessuna indicazione di tipo temporale oltre a quella del v. 1): se gli eventi non evolvono, il discorso di Gesù permette però al discepolo di fare il punto su quanto già accaduto e ascoltato, e prepararsi così a un ulteriore passo nella sequela.
Come già per il discorso dal monte, anche qui Matteo sottolinea (per due volte) che Gesù si siede (prima sulla spiaggia, poi sulla barca): è l’atteggiamento del maestro, anche se, a guardar bene, Gesù più che insegnare racconta delle parabole, più che di astrazioni sul Regno dei cieli parla dell’esperienza di uomini e di donne che l’hanno incontrato; più che insegnare, insomma, annuncia. Vi è però molto di più, e la descrizione della situazione non deve essere sottovalutata, perché la prossemica e altre scienze antropologiche hanno messo in evidenza da tempo l’importanza, per l’atto comunicativo, non solo delle distanze tra le persone, ma anche delle rispettive posizioni: Gesù, mentre racconta, sta seduto, è cioè in una posizione dialogante, in qualche modo indifesa, ma pur sempre fissa. Le folle, invece, sono in piedi, in una situazione più aperta a esiti diversi: possono perciò essere pronte, per esempio, a rimanere all’ascolto, mettendosi sedute o avvicinandosi a Gesù; oppure ad andarsene; o, ancora, ad attendere e tergiversare… Ogni ascoltatore è come un terreno che può raccogliere il seme in modo diverso.
La prima parabola, che leggiamo oggi, è quella che nel capitolo «in un certo senso, governa tutte le altre”, ed è anche “la più importante” non solo delle parabole di Matteo, ma “di tutte le parabole evangeliche» (A. Mello). Le domande fondamentali che questa provoca sono: chi è il seminatore? e qual è il suo comportamento? Gesù sta descrivendo la sua stessa missione di annunciatore del Regno: quel seminatore che esce per andare a gettare il seme è proprio lui mentre parla del Regno. Ciò ci mette in grado di sottolineare un aspetto del nostro racconto, ovvero le diverse descrizioni del terreno che riceve il seme.
Proprio su questo si concentra la spiegazione della parabola che viene data ai discepoli, e che leggiamo a partire dai vv. 18-19: «Voi dunque intendete la parabola del seminatore: tutte le volte che uno ascolta (oppure: «quando uno ascolta») la parola del regno e…». La parabola tratta quindi dell’ascoltare la parola del Regno (cf. Mc 4,14: «la parola»; Lc 8,11: «la parola di Dio»). Ma se il seme è lo stesso, cambia il terreno dove questo cade, ovvero il modo di ascoltare questa parola. Secondo Gerhardsson, che ritiene come la parabola possa essere meglio capita confrontandola con la preghiera quotidiana ebraica dello Shema’ («Ascolta, Israele», cf. Dt 6,4ss.), «gli ascoltatori della parola si dividono in due gruppi: A) quelli che non soddisfano le esigenze richieste; B) quelli che invece le soddisfano. A) Consiste di tre tipi: 1) gli uomini della strada; 2) gli uomini dei terreni pietrosi e 3) gli uomini delle spine. Alcuni falliscono perché non amano Dio con tutto il cuore (1), altri perché non lo amano con tutta la loro anima (2) e altri perché non lo amano con tutta la loro forza (3). Quelli che non falliscono (B), invece, gli uomini del buon terreno, ascoltano, capiscono e fanno, cioè producono frutto, vivendo in accordo con ciò che hanno udito». Questa spiegazione, di taglio biblico e morale, è interessante. Allora potremmo davvero chiederci quale tipo di terreno siamo, quando ascoltiamo la parola del Regno.
Si rischia infatti, ogni volta che Dio ci parla, di chiudere gli orecchi o di non prestare la dovuta attenzione. Ricordiamo che il tema dell’ascolto e della messa in pratica è caro a Matteo, ed è da questi trattato alla fine del discorso della montagna: «chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia…» (Mt 7, 24; cf. Lc 6,47-49). La difficoltà dell’ascolto non è data solo in rapporto alla Parola di Dio. Nella nostra società dei mass media, in modo analogo, abbondanti sono le possibilità di comunicare e di creare relazioni, continuamente riceviamo segnali di tanti tipi, stimoli, ascoltiamo parole, ma rischiamo di perdere il senso reale del messaggio. I genitori e i figli si siedono a tavola e non si ascoltano più vicendevolmente, ma lasciano acceso lo smartphone a riempire quel vuoto che spesso incombe nelle nostre famiglie: e allora non si interpretano più i segni come si dovrebbe. Il seme, magari gettato nella forma di un disagio che chiede aiuto, cade su un terreno che non è capace di accoglierlo. Già alcuni linguisti (come Eric Buyssens) avevano accostato la parola “seme” a quella di “segno”: ogni segno che ci comunica qualcosa, è sempre un seme a cui dare spazio nel nostro ascolto e nella nostra vita. Il problema è che oggi, nel nostro contesto, il seme della parola di Dio viene aggredito continuamente dalla cultura laicista dominante. Questa non ci agevola in nessun modo nell’essere buon terreno, e la trasmissione della fede è divenuto il problema. La parabola di oggi in questo senso è di grande aiuto. Da una parte è fortemente responsabilizzante: dice che sta a noi custodire il seme-segno della Parola di Dio; dall’altra, però, ci ricorda che il seme viene sempre gettato, che il Signore non si stanca di seminare, anche lì sui sassi, dove a noi sembra sprecata la semina. Se il mondo non accetta più la Parola del Signore che l’ha creato, questa non verrà mai meno; piuttosto, come dice il Vangelo, a passare saranno il cielo e la terra (Mc 13,31).
- Fonte del commento – il sito “La Parte Buona”
- Commento a cura di p. Giulio Michelini