Stiamo ancora leggendo Giovanni, come già nella II e IV domeniche di Pasqua (dopo la pausa di domenica scorsa con il vangelo di Luca dei due di Emmaus). La pagina di oggi si trova all’interno di quella parte del Vangelo secondo Giovanni che si può definire come “libro della gloria”, e che prende i capp. 13–20, e ancora più precisamente, all’interno di quello che è l’ultimo discorso di Gesù, che occupa i capitoli 13–17, ovvero il discorso durante l’ultima cena.
Questo discorso è anche composto, come si vede proprio oggi, da dialoghi. Gesù risponde a Tommaso e a Filippo; prima aveva parlato con Pietro (13,36-38), con la sua generosa profferta («Darò la mia vita per te…») mentre poco più avanti, invece interverrà anche Giuda (non l’iscariota; 14,22). In effetti, si può chiamare questa parte della cena di Gesù – a partire dalla domanda di Pietro – quella delle quattro domande. La sezione si chiude con Gesù che, dopo aver spiegato, dice infine «Alzatevi, andiamo via di qui!» (v. 31). Ma nemmeno questo invito farà terminare il discorso di Gesù, che anzi proseguirà fino al cap. 16. Gesù risponde ai suoi discepoli, che sembrano essere concentrati solo sulla sua dipartita; la risposta più lunga è quella a Filippo (14,9-21), e continuerà anche nel vangelo della prossima domenica, la VI di Pasqua.
Gesù spiega, con le sue risposte: dove sta andando; il fatto che è bene che se ne vada; il suo ritorno. In questo testo prevale il carattere del discorso d’addio: è un testamento. Siamo cioè all’interno di un vero e proprio “discorso d’addio”, paragonabile a quello di Giacobbe che prima di morire benedice i figli (cf. Gn 49) o a quello di Mosè (che poi è l’intero libro del Deuteronomio) che si congeda da Israele e lascia le consegne a Giosuè.
I temi del discorso d’addio sono molteplici, ma in generale si può dire che Gesù parla della sua partenza in modo incoraggiante, promettendo di ricordarsi dei suoi discepoli e annunciando la venuta del suo plenipotenziario, lo Spirito, che agirà per conto suo in sua assenza. Le caratteristiche del discorso d’addio di Gesù che si trovano anche nella letteratura biblica o apocrifa sono: la predizione della morte, la predizione di future sofferenze e persecuzioni, una esortazione a una vita morale, un invito a stare uniti, e amarsi gli uni gli altri, e il rinnovo delle promesse di Dio.
La nostra pagina può essere divisa in due parti: a) nella prima parte (vv. 1–7) – in cui Gesù parla della sua partenza in modo incoraggiante – protagonista è Tommaso; b) nella seconda parte (8–12), protagonista è Filippo, e Gesù esorta lui e i discepoli a credere in lui.
Nei vv. 1–7 Gesù prepara i suoi discepoli alla sua prossima assenza, perché lui deve tornare al Padre: da lui è venuto, e la comunione con lui è il suo ritorno. Ma poiché l’addio è comunque traumatico, ecco che Gesù deve insistentemente rassicurare i suoi e dar loro delle spiegazioni. Invitando i suoi a non turbarsi, Gesù usa un linguaggio affettivo. Il turbamento del cuore però riguarda non solo le emozioni, ma soprattutto l’intelligenza e la volontà. Mentre nella nostra cultura il cuore è immaginato come la sede degli affetti, nel linguaggio biblico il cuore ha un altro significato, ed è la sede dell’intelligenza e della volontà, cioè del pensiero. Riprova ne è la frase di Gesù quando si rivolge ad alcuni suoi avversari domandando loro «Perché pensate cose malvagie nel vostro cuore?» (Mt 9,4). Di cosa sia il cuore nella Bibbia, ha scritto un grande esegeta come il cardinale Carlo Maria Martini: «il cuore è l’intimo dell’uomo, il centro della persona, il luogo profondo in cui la nostra persona prende coscienza di sé, riflette sugli avvenimenti, medita sul senso della realtà, assume comportamenti responsabili verso i fatti della vita e verso lo stesso mistero di Dio».
Gesù poi consola i suoi dicendo che non devono temere di non trovare posto in Cielo. Senza indugiare in dettagli, spiega che quel rifugio non è anzitutto un luogo, ma una relazione, giocata sul verbo menein (dimorare), tanto caro a Giovanni. Si rappresentata qui un edificio mediante un discorso figurato, ma la figura poi cede il passo a un discorso centrato non più su un luogo, ma – appunto – su una relazione, quella con il Padre di Gesù. Sotto queste parole potrebbe esserci anche un’allusione alla concezione giudaica delle Hekhalot (palazzi) che riguardano storie di veggenti che avevano visto i palazzi divini del Cielo, tradizione basata sulla visione del carro di Ezechiele al cap. 1. L’allusione non è quindi al Tempio di Gerusalemme, che Gesù ha chiamato proprio la “casa del padre mio” in Gv 2,16 («Non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato»), ma un tempio celeste.
Una delle più esplicite parole di Gesù sul suo ritornare si trova qui, con la frase palin erkomai: “Verrò di nuovo”. È la seconda venuta di Gesù. Questa non è più presentata indirettamente nella figura del Figlio dell’Uomo che verrà sulle nubi del Cielo – o in parabole (come quella del padrone che lascia le sue proprietà ai servi…): qui Gesù parla di sé: ego, io. La promessa del suo ritorno è costruita sulla base non di un futuro – come si legge anche nella traduzione CEI – ma di un presente: Gesù sta dicendo «Vengo di nuovo», indicando un futuro che è già realizzato, già presente.
Gesù promette poi di prendere con sé i suoi discepoli, non li lascerà sperduti, ma li porterà dove è lui stesso. Un noto studioso del Quarto vangelo, Raymond Brown, vede questi vv. come una reinterpretazione del tema della parusia, quando nella comunità dell’evangelista ci si rende conto che la parusia non era avvenuta subito dopo la morte di Gesù e quando i discepoli cominciarono a morire.
La domanda di Tommaso è un artificio retorico per consentire a Gesù di chiarire la sua frase al v. 4, «Voi conoscete la via». Si tratta ancora di uno dei tanti fraintendimenti di cui è costellato il Vangelo secondo Giovanni: Gesù parla di una via diversa, mentre Tommaso vorrebbe avere le indicazioni stradali, come quelle di un navigatore… La via invece è la relazione con una persona: Gesù. Dicendo «Io sono la via, la verità e la vita» Gesù dice che i suoi discepoli sanno già dove andrà Gesù, e sanno anche la strada per raggiungerlo, quando tornerà a prenderli. È la sesta forma di autorivelazione di Gesù del Quarto vangelo («Io–sono»: il pane di vita; la luce del mondo; la porta delle pecore; il buon pastore; la risurrezione e la vita), quella in cui Gesù dice di sé di essere la strada per poter finalmente vedere il Padre. Affermando che «Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» dice una pretesa grande, forse tra le più alte che si trovino nei vangeli: è l’autocoscienza del Gesù del quarto evangelista di essere il mezzo fondamentale per giungere a Dio.
Nel Primo Testamento la via e la verità sono modi per dire quello che è la Legge – che Gesù, almeno secondo quanto si legge nel Discorso della Montagna (Mt 5–7), non viene ad abrogare. Ora Gesù nella sua umanità (la Parola incarnata) e divinità (quella Parola era presso il Padre, al quale torna) è per noi via verità e vita. Gesù dice di essere non semplicemente la via a Dio, ma al Padre; è il modo con cui il Gesù del QV definisce Dio, ma significa anche che chi segue questa via, può trovare un Dio che è Padre, non patrigno.
Nella seconda parte della nostra pagina (vv. 8-12) Filippo chiede a Gesù «Mostraci il Padre». È difficile dire cosa Filippo potesse avere in mente, e cioè quello che il testo vuol dire. A un livello superficiale, la domanda potrebbe essere una “prova” per Gesù, simile alla domanda che i farisei gli rivolgono durante la Festa delle capanne: «Dov’è tuo padre?» (Gv 8,19) – domanda simile a quella di Pietro, «Dove vai?». Forse Filippo cercava un segno? O una visione? Ma Gesù dev’essere stupito della domanda di Filippo, perché aveva già detto poco prima, nel percorso narrativo di Giovanni, gridandolo a gran voce: «Chi crede i me, non crede in me, ma in colui che mi ha mandato; chi vede me, vede colui che mi ha mandato» (Gv 12,44-45). Sul piano grammaticale, la risposta di Gesù ha due perfetti – tradotti da CEI alla lettera, «chi ha visto me, ha visto il Padre» –, ma che possono essere espressi anche con un presente: «chi vede». Sul piano del racconto del Quarto vangelo: la frase è il riepilogo, il sommario, la sintesi di tutta la prima parte del vangelo secondo Giovanni, il libro dei segni (e infatti si trova alla fine del cap. 12), dove Gesù è presentato come la Parola del Padre che si è fatta carne. Infine, sul piano teologico il punto è che quello che Gesù ha detto più volte e i discepoli non hanno ancora capito è difficile da comprendere, perché è il punto capitale che distingue la nostra fede da quella dell’ebraismo: «Chi vede me vede il padre» dice il principio di incarnazione.
Lo stesso concetto si ritrova in modo simile in uno scritto paolino: Gesù Cristo è icona (eikon: “immagine”) del Dio invisibile (cf. Col 1,15). Se il Padre non si mostrerà finché non saremo simili a lui, quando lo vedremo come egli è (cfr. 1Gv 3,2), Gesù invece si è già «fatto vedere» (cf. 1Cor 15,5) dagli uomini.
In questo discorso d’addio, Gesù chiede ai suoi anzitutto di fidarsi di lui: è la fede il punto centrale, non tanto o soltanto il voler vedere o capire: Gesù invita i suoi a credere in lui: «Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse».