Padre Giulio Michelini – Commento al Vangelo del 31 Luglio 2022

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Dopo l’insegnamento del Pater e sulla preghiera, il lezionario ha tralasciato alcune scene del capitolo undicesimo (un esorcismo, altri insegnamenti, la messa in guardia dei farisei dopo l’invito che Gesù ha ricevuto a pranzo da uno di loro) e salta parte del dodicesimo, per presentare una parabola esclusivamente lucana. Essa, esclusivamente del terzo vangelo, è breve, concentrata solo in cinque versetti (12,16b-20), è perfettamente incorniciata da due insegnamenti (12,15: “Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza la sua vita non dipende dai suoi beni”; 12,21: “Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio”).

Gesù – nel Terzo vangelo – è ancora in viaggio verso Gerusalemme: è soprattutto in questo contesto che Luca narra parabole, durante il pellegrinaggio di Gesù, e sempre a causa di una situazione che le innesca, ogniqualvolta il Maestro viene interrotto da qualcuno. Qui, un tale gli chiede di dirimere un contezioso sull’eredità: essendo probabilmente morto il padre, uno dei due fratelli vuole avere la sua parte, perché non desidera più vivere con l’altro; era un principio accolto nel mondo biblico – testimoniato anche da vari casi di questo tipo nel Talmud – che l’eredità dovesse rimanere indivisa, nella famiglia che doveva custodirla.

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Gesù però non si lascia irretire e non si schiera con nessuno dei due contendenti. Afferma di non avere competenza a riguardo, oppure – meglio: mostra di essere interessato a qualcosa di più che una disputa, ovvero a quanto essa nasconde sotto la sua superficie. Ecco perché si orienta verso la parenesi, ricordando che la vita non si misura sulla quantità di beni posseduti: chi si aspettava un intervento puntuale di Gesù sul caso sottopostogli, invece si trova di fronte a un insegnamento che vale in generale, e per tutti.

La parabola fa parte del genere “racconto per esempi”, tipico della fonte propria di Luca, e – lo si nota subito – lo sfondo della parabola è sapienziale e veterotestamentario. Una parentela stretta, ad esempio, si ritrova con un versetto dal libro del Siracide (Sir 11,19): “(il ricco) mentre dice: ‘Ho trovato riposo; ora mi godrò i miei beni’, non sa quanto tempo ancora trascorrerà; lascerà tutto ad altri e morirà”, anche se la differenza di prospettiva risiede nel fatto che per la parabola lucana il ricco è considerato come uno stolto, mentre, al contrario, in Siracide il godere dei beni è visto positivamente, come è premesso qualche versetto prima (Sir 11,17: “Il dono del Signore è assicurato ai pii e il suo favore li rende felici per sempre”). Ciò non toglie che il Siracide sia un vero modello letterario per la nostra parabola.

La parabola funziona in modo semplice. L’uomo ricco è anonimo, come l’uomo della folla che si rivolge a Gesù, e come i personaggi del genere letterario parabolico o sapienziale, ed è rappresentato dai verbi a lui attribuiti in quanto soggetto: possiede terra (12,16) e molti beni (12,19), ragiona tra sé, dice. Nei pensieri del ricco il verbo dominante è “fare” (12,17.18), “raccogliere” (12,17.18; cfr. il v. 17, nell’originale greco: “non ho dove raccogliere i miei frutti”), “demolire”; vi sono poi una sequenza di verbi (riposarsi, mangiare, bere, stare allegro) che indicano un futuro di gioia. Ed ecco che, come avviene sempre nel genere parabolico, una “svolta” improvvisa (il turning point), un avvenimento inaspettato modifica gli eventi. Se prima l’uomo diceva tra sé, ora a parlare è Dio stesso: “Ma Dio gli disse: Stolto…” (12,20). Le parole divine, poi, riprendono un vocabolo importante che l’uomo aveva detto tra sé (“anima mia”; anima-psyche), e giocano sulla polisemanticità di questo termine, tradotto infatti dalla CEI in due modi diversi (“anima mia”, 12,19; “Questa notte stessa ti sarà richiesta la tua anima”; CEI: vita, 12,20).

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Dio parla all’uomo ricco. Lo ammonisce, e gli pone una domanda a cui, probabilmente, se la parabola finisce con la morte del ricco (ma questo è solo alluso), egli non potrà rispondere. La domanda di Dio, allora, rimane sospesa, “aperta”, e non ha altro interlocutore possibile se non gli ascoltatori di quel tempo, quelli a cui Gesù si rivolge, tra cui l’anonimo che cerca un giudice sulla questione di eredità, e gli ascoltatori di oggi. È come se a noi – lettori e ascoltatori del brano che ora ci viene proposto – venisse chiesto: “E quello che hai preparato di chi sarà?” (Lc 12,20). Qui sta la forza del linguaggio parabolico: “la parabola, trasportando l’uditore in un altro mondo, gli permette di distaccarsi dalle sue idee preconcette, di slegarsi da ciò che lo tiene avvinto, e di giudicare sanamente, liberamente” (J.-N. Aletti).

In conclusione: nella parabola lucana “in questione non sono i beni né il loro godimento, ma l’illusione di cercare nel loro accumulo la sostanza della vita, il punto d’appoggio, cioè il senso e la sicurezza” (B. Maggioni). Un altro dettaglio resta da ricordare, e riguarda la finale della parabola: Gesù dice che “così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti (per-eis) a Dio” (12,21). “L’espressione per Dio è in greco un moto a luogo: quindi, non a vantaggio di Dio, ma in direzione di Dio. Con discrezione viene così suggerita un’idea importante: non si tratta di offrire i beni a Dio, ma di usarli nella sua direzione, secondo la sua logica” (Maggioni).

Il Signore ci conceda di essere “come olivi verdeggianti nella casa di Dio”, e di non dovere ascoltare mai, rivolte a noi, le parole di coloro che deridono lo stolto e dicono: “Ecco l’uomo che non ha posto in Dio la sua difesa, ma confidava nella sua grande ricchezza” (Sal 52,9).

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