Padre Giulio Michelini – Commento al Vangelo del 3 Luglio 2022

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La pagina del vangelo di oggi si trova dopo l’inizio del pellegrinaggio verso Gerusalemme (cf. Lc 9,51) e l’invio dei dodici (Lc 9,1-6): “altri discepoli” ora vengono inviati da Gesù avanti a lui. Si tratta di un numero che la tradizione testuale dei manoscritti antichi trasmette in modo difforme: sono o settantadue (e allora rappresenterebbero i popoli della terra, secondo l’elenco di Genesi 10 (nella traduzione greca; nel testo ebraico i popoli sarebbero settanta) o settanta, ovvero quanti gli anziani scelti da Mosè secondo il racconto di Numeri (cap. 11). In ogni caso, si vuol dire che Gesù invia non solo i Dodici, ma anche altri discepoli, e li invia a tutti.

Se infatti il numero Dodici evocava la missione ad Israele, quella dei settanta/settantadue non può che richiamare la missione universale della Chiesa. Si tratta, però, come nota G. Rossé, di teologia: «Storicamente, Gesù non ha organizzato due missioni; non c’è stato un invio prepasquale verso le regioni pagane attorno alla Palestina», ovvero è un modo per dire che la missione ai pagani – iniziata storicamente dopo la morte e risurrezione di Gesù – è già nella volontà del Signore.

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Perché un invio ai pagani abbia luogo, infatti, saranno necessarie alcune condizioni che non si erano ancora realizzate al tempo in cui Gesù compie il suo viaggio a Gerusalemme (e come verrà poi detto nel libro degli Atti): la persecuzione della Chiesa, con la morte di Stefano e la dispersione dei discepoli di Gesù; l’incontro di Paolo con Cristo; la resa da parte di Pietro nel poter andare da Cornelio e stare a tavola con i pagani; l’assemblea di Gerusalemme, che risolve questioni che mai si erano prefigurate prima riguardante la circoncisione o meno dei convertiti.

La pagina si può suddividere in due parti: nella prima vengono date le istruzioni sulla missione, nella seconda si descrive il ritorno dei settanta/settantadue.

Le disposizioni per la missione sono facilmente elencabili: i discepoli devono andare a due a due (forse nel modo in cui si riteneva valesse una testimonianza, ovvero almeno di due persone); non devono portare cose inutili (affidandosi alla Provvidenza), e distinguersi da altri (come gli itineranti cinici, ad esempio); devono dare il dono della pace, che passa attraverso i missionari e la loro accoglienza, in un incontro “da persona a persona”, con una mediazione data dalla relazione. L’annuncio della venuta di Gesù e del Regno, poi, prevede un’urgenza che fa sì che i discepoli non dovranno nemmeno fermarsi per salutare le persone.

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Il racconto del ritorno dei missionari, poi, registra una risposta spiazzante di Gesù nei confronti dei discepoli che si rallegrano per quanto accaduto. Le parole di Gesù sono giocate sul paradosso (come spesso fa Gesù, per esempio nelle Beatitudini) e con un linguaggio apocalittico (su Satana che cade dal cielo). Gesù dice ai suoi di non rallegrarsi perché i demoni si sottomettono, ma perché i loro nomi sono scritti in cielo.

La missione infatti non dipende dai missionari, ma dalla forza della Parola e da Dio. Ecco perché in essa è previsto anche un rifiuto. Tra i tanti aspetti del vangelo di oggi emerge infatti l’idea del fallimento dell’evangelizzazione. Essa è segnalata per almeno tre volte nel brano: esplicitamente nell’espressione del v. 6, “altrimenti (la pace) ritornerà su di voi”, e del v. 10, “quando entrerete in una città e non vi accoglieranno”. Vi è un’allusione nel v. 3, nell’essere “agnelli in mezzo ai lupi”. E, anche se è stata tagliata dal lezionario, nell’ammonizione a Corazin e Betsàida, al v. 16, si parla di Gesù disprezzato, e dei discepoli che subiscono la stessa sorte.

La storia che divide. Il destino del discepolo è infatti quello del Maestro: non solo successi, ma anche muri che sbarrano la strada dell’evangelizzazione. Fin dall’inizio del viaggio verso Gerusalemme, di cui abbiamo letto domenica scorsa, Luca presenta Gesù come il non accolto. Ricordiamo che, giunto ad un villaggio di samaritani, “essi non vollero riceverlo, perché era diretto verso Gerusalemme” (Lc 9,53).

Conosciamo le ragioni storiche che illuminano tale inciso. L’ostilità risale al ritorno dall’esilio; è in quel tempo che il popolo che viene da Babilonia si scontra con i samaritani che non accolgono i profughi (cfr. Esd 4); i rimpatriati reagiscono con durezza e intransigenza, fino al punto che, nel secondo secolo a.C., occupando la Samaria, il giudeo Giovanni Ircano (figlio di Simone Maccabeo), distruggerà il santuario samaritano sul monte Garizim. L’odio sarà talmente grande che i pellegrini galilei che si recavano al Tempio di Gerusalemme dovevano evitare di entrare nel territorio dei samaritani, per non incorrere nei loro attacchi. Poco dopo la morte di Gesù accadde un episodio emblematico narrato da Giuseppe Flavio: “Si ebbe poi un violento scontro tra galilei e samaritani. Infatti mentre un gran numero di giudei si recavano alla festa, rimase ucciso un Galileo. Accorse allora dalla Galilea una gran folla con l’intenzione di dare addosso ai samaritani. Quando la notizia del delitto arrivò a Gerusalemme, la folla ne rimase sconvolta, e abbandonata la festa, mosse all’attacco di Samaria”.

Potremmo dire che i samaritani perdono una opportunità per ferite nella memoria – dovute alla storia – che non sono guarite. È più forte il rancore dell’apertura. L’odio verso il “nemico” fa leggere tutto allo stesso noioso ed identico modo: Gesù è già classificato, non importa chi sia o cosa dica, è un galileo.

L’ostacolo della divisione è alla fine rimosso nella Chiesa delle origini, come racconta il libro degli Atti al cap. 8, quando lo Spirito “scardina le chiusure del particolarismo e apre orizzonti sempre più vasti. Approfitta della persecuzione, scatenata a Gerusalemme contro i cristiani di cultura greca, per seminare il vangelo tra i samaritani, emarginati e disprezzati dagli ebrei come eretici” (Catechismo degli adulti Cei, 451).

Una evangelizzazione fallita. A leggere bene il vangelo di Luca, però, la non accoglienza è imputabile anche ad altri fattori, oltre a quelli visti sopra. Gesù è respinto sin dall’inizio del suo ministero, già nel suo paese. La gente della sua città, Nazaret, si rifiuta di credere al suo primo annuncio e vuole anzi metterlo a morte (cfr. Lc 4). Questa volta la loro responsabilità è chiara: pur ascoltandolo parlare nella loro sinagoga, non accolgono il Vangelo. Il cardinale Martini parla addirittura di un Gesù “evangelizzatore mancato”, e commenta la scena (L’evangelizzatore in san Luca, Ancora 2000): “Questa è la prima immagine di Gesù evangelizzatore che viene presentata: sconfitto, cacciato, non ascoltato, non gradito, ed è davvero una scena misteriosa se pensiamo che Gesù è l’evangelizzatore. Questa non è una scena solitaria, e se Luca l’ha messa qui, è perché sa di toccare qualche cosa che appartiene a una costante del Regno di Dio”. La storia si ripete, anche per i discepoli, ed è previsto il rifiuto colpevole all’annuncio.

In che modo reagire alla (inevitabile) chiusura? La pace torna, ma la polvere deve essere scossa dai piedi di chi evangelizza (Lc 10,11). L’espressione, già presente in Lc 9,5, a proposito della missione dei Dodici, dice un gesto profetico, che – anche se non collegato alla tradizione rabbinica di rimuovere la polvere di una terra pagana al ritorno sul suolo della Terra Santa (Nolland) – significa comunque una rottura di comunione e una profezia di giudizio: sappia bene a cosa va incontro chi non accoglie un discepolo: non accoglie il Messia (cfr. Lc 10,16). Ma i settantadue devono in ogni caso dire a chi li rifiuta che, se la polvere “la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino” (Lc 10,11): che si tratti di un’ultima occasione? Che anche a chi rifiuta debba essere offerta una ulteriore possibilità di conversione? (Rossé).

Sarebbe un segno di grande libertà da parte di chi annuncia. Certo è che per l’evangelizzazione – soprattutto oggi – viene richiesta attenzione al vissuto di coloro a cui viene fatto l’annuncio, alla loro storia e al loro passato, e anche una estrema misericordia senza alcun giudizio. Quanta comprensione è richiesta per quelli che non credono e per il mistero di non apertura che a volte manifestano.

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