Padre Giulio Michelini – Commento al Vangelo del 29 Gennaio 2023

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La legge, la montagna e le beatitudini

Inizia con questa domenica la lettura del c.d. discorso della montagna. Tale lungo discorso – che prende tre capitoli del vangelo, dal quinto al settimo – è uno dei cinque discorsi che articolano l’intero testo matteano. Il primo lungo discorso di Gesù in Matteo è probabilmente la parte dei vangeli che ha avuto più interpretazioni. Le parole di Gesù sono state comprese durante i secoli nei modi più svariati: con letture allegoriche, escatologiche, fondamentaliste, sociologiche ecc. La ragione sta nel fatto che tra i cinque di Matteo, quello della montagna «non è un qualsiasi discorso: sul piano ermeneutico, ha una rilevanza unica, perché offre al lettore una visuale programmatica dell’opera del Messia» (M. Grilli).

L’attacco del discorso è solenne, come si deduce dai sei verbi di cui è soggetto Gesù, e dall’espressione «aperta la sua bocca». Quest’ultima è ripresa da Matteo più avanti, in 13,35, facendo ricorso a una citazione (dal Sal 77,2), applicata a Gesù che parla in parabole; è usata poi dalla Settanta nel Sal 118,131, quando il salmista dice di aver aperto la bocca per amore dei precetti del Signore. In tutti e due i salmi, secondo l’interpretazione giudaica tardiva, il riferimento è alla Torà. Nell’ebraismo la Torà che è “sulla bocca” è una formula caratteristica usata per descrivere la Torà “orale”, ricevuta – insieme a quella “scritta” – sul monte Sinai da Mosè, e tramandata da questi a Giosuè, e poi agli anziani, dagli anziani ai profeti, e così via (cfr. Mishnà, Avot 1,1). Il riferimento è alla tradizione orale, che interpreta e rende viva la Parola scritta adattandola alla situazione vitale del tempo.

Gesù in ogni caso nel vangelo di Matteo non presenta una legge nuova, e piuttosto è descritto come l’interprete che riporta la Torà al suo senso pieno, anche se con caratteristiche di originalità rispetto all’interpretazione giudaica e farisaica corrente. Nella teologia del primo vangelo il maestro non è venuto ad abolire la Torà, non ha una «dottrina nuova» (come invece scrive Mc 1,27), e non stabilisce nemmeno una «nuova alleanza» (espressione che invece ricorre in Lc 22,20 e in 1Cor 11,25).

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La beatitudine macarismo è una dichiarazione di felicità. Per le beatitudini della povertà in spirito e quella della persecuzione a causa della giustizia è proclamata da Gesù come già presente. Questa felicità perciò deve essere cercata nello stato a cui è misteriosamente connessa (povertà e persecuzione), ed è un invito a guardare “dentro” o “oltre” quella situazione per scorgervi la presenza del Regno. L’essere poveri o perseguitati – nel senso in cui lo intende Gesù, e che cercheremo di spiegare – che agli occhi del mondo è una realtà solo negativa, è la modalità in cui si può sperimentare nell’oggi la salvezza inaugurata da Gesù, che per primo ha vissuto questa e le altre beatitudini che proclama. Tra questi macarismi e quelli del Primo Testamento vi è dunque qualche significativa differenza. Gesù non sembra porre condizioni e non esige alcun comportamento previo (non dice “siate poveri”), ma dichiara beati coloro che sono in quella situazione. Annuncia una felicità, ma una felicità paradossale. Le beatitudini, così, come i «guai» di Lc 6,24-26, rivelano una novità, un modo nuovo di vivere la vita e di pensarla, perché tutto è visto in rapporto a Dio, cioè al suo Regno. In questo senso, fondano la speranza in una loro futura e completa realizzazione: è infatti Dio, fedele più dei re umani – incapaci di vincere le povertà, o di consolare gli afflitti, operare la pace, ecc. – che farà tutto questo nell’ultimo giorno.

Nel Nuovo Testamento si contano almeno una cinquantina di beatitudini: solo in Luca ne sono elencate quindici, due in più rispetto a Matteo. Nel discorso della montagna, sin dalla tradizione patristica, sono state contate otto beatitudini (l’ultima, al v. 5,11, è vista come uno sviluppo di quella sulla persecuzione) e, di queste, quattro sono comuni a Luca (anche se due hanno differenze sostanziali). Per Matteo sono «beati», oltre a coloro che sono specificati in questo capitolo – quelli che non si scandalizzano di lui (cfr. 11,6), i discepoli che vedono Gesù e ascoltano le sue parole (cfr. 13,16), Simone per la sua professione di fede cristologica (cfr. 16,17), e infine il servo della parabola che attende il ritorno del suo signore (cfr. 24,46).

La prima beatitudine dell’elenco matteano è l’annuncio della felicità ai poveri (v. 3). Rispetto a quella di Lc 6,20, però, in Matteo sono beati i poveri «nello spirito» (“quanto” allo spirito – nel senso non dello Spirito di Dio, ma di quello umano, ovvero della persona e del suo intimo; cfr. Mc 2,8). Mentre in Lc 6,20 la povertà in sé è vista come motivo sufficiente di beatitudine, Matteo o si rivolge a una comunità dove potrebbero esservi molti ricchi, e quindi minimizza, magari per non colpevolizzare i più abbienti, oppure intende dire che ciò che conta di più è la povertà profonda, non solo quella economica, ma quella del cuore (la Traduzione Ecumenica ha «beati i poveri di cuore», assimilando la beatitudine della povertà a quella della purezza del v. 5,8).

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Senza dunque escludere una possibile lettura sociale di questa beatitudine, avremmo a che fare piuttosto con una disposizione dell’animo, la descrizione dello stato di coloro che sopportano con fiducia ogni cosa e, sottomettendosi a Dio, si rimettono alla sua volontà. Il tema della povertà in Matteo ritornerà al v. 11,5 (nella risposta al Battista), nel dialogo col ricco di 19,21, e all’inizio della passione, dove Gesù verrà unto con il profumo che, secondo i discepoli, poteva essere dato ai poveri (26,9.11). La povertà sembra comunque interessare più Luca, che usa il lessema dieci volte contro le cinque di Matteo. Il primo evangelista, piuttosto, generalizza, trasformando le beatitudini – come anche quella sulla povertà – in disposizioni esistenziali, interne, atteggiamenti spirituali adatti a tutti i credenti e praticabili da tutte le categorie.

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