Padre Giulio Michelini – Commento al Vangelo del 20 Febbraio 2022

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La regola d’oro, la regola d’argento e quella di ferro.

Dopo le beatitudini proclamate nel vangelo della scorsa domenica, continua il discorso in pianura secondo Luca. Stiamo andando al cuore del discorso del Maestro, dove predomina l’etica dell’amore: l’amore per i nemici, il donare gratuitamente, il non giudicare, il porgere l’altra guancia.

La pagina di oggi può essere suddivisa in due parti: a) vv. 27-35: l’amore per il nemico; b) vv. 36-38: l’amore fraterno. Alcune caratteristiche di queste parole di Gesù si possono così semplicemente sintetizzare: ciò che regge l’intero discorso è il verbo agapao, amare; i detti di Gesù sono di stile sapienziale (non vi è un vero e proprio ordine logico); i verbi sono soprattutto all’imperativo. Commenta don Carlo Broccardo «Gesù ammassa una serie di comandi che puntano tutti nella stessa direzione: scardinare la logica della reciprocità».

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Nei versetti di questa domenica il tema, dunque, è l’amore per il nemico, con la famosa regola d’oro al v. 31: «Come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro». Per commentarla si può fare riferimento a un libro biblico sacro per i cristiani, e stimato ma non riconosciuto canonico dagli Ebrei, il libro di Tobia. Al capitolo quarto si racconta del padre Tobi che saluta il figlio che parte per un lungo viaggio, e tra le tante raccomandazioni che gli dà gli propone anche quella che è stata chiamata la “regola d’argento”: «Non fare a nessuno ciò che non piace a te» (Tb 4,15). Si tratta di uno dei suggerimenti più acuti e utili che un padre possa dare a un figlio, e significava, in ultimo, non far del male a nessuno. È senza dubbio un principio morale importante, e impegnativo: se tutti seguissero questa regola, nessuno riceverebbe male dall’altro.

Nella tradizione giudaica questa regola si trova anche all’interno di una storia che vede come protagonista due rabbini del primo secolo, di poco precedenti Gesù, Hillel e Shammai: «Un pagano si presentò a Shammai e gli disse: “Convertimi, a condizione di imparare tutta la Torà nel tempo in cui si può stare ritti su un solo piede”. Shammai lo mandò via col bastone che aveva in mano. Si presentò allora a Hillel, il quale lo convertì, dicendogli: “Ciò che a te non piace, non farlo al tuo prossimo. Questa è tutta la Torà, il resto è commento, va’ e studia” (Talmud babilonese, Shabbat 31)». La regola si trova anche in uno scritto cristiano, la Didachè, molto legato all’ambiente giudaico: «Tutto quanto vuoi che non sia fatto a te, nemmeno tu fallo ad altri» (1,2). Gesù, però, nel Discorso della pianura / montagna, si rifà a questa regola volgendola in forma positiva: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro». Rispetto alle raccomandazioni di Tobi al figlio, o di rabbi Hillel, qui però non si tratta semplicemente di non fare qualcosa agli altri, ma, anzi, di fare quello che desidereremmo fosse fatto da altri. La formulazione in questo senso implica maggiore libertà e creatività, e ricorda che anche le omissioni possono essere un male. Quanta differenza tra la regola d’oro e quella di bronzo, e soprattutto tra queste e quella che un predicatore statunitense, non cattolico, di fine ‘800 (Theophilus Brown Larimore) chiamava la “regola di ferro”: la differenza che si esprime nella forza di chi prevarica sugli altri.

In conclusione: se mai si deve seguire la regola di ferro, oggi nemmeno applicare la “regola d’argento” basta più, perché porta solo a difendersi, a pensare a se stessi, a centrarsi in modo autoreferenziale sui propri problemi. L’unica via per la giustizia è la regola d’oro.

Nella seconda parte del vangelo di oggi (vv. 36-38) si parla invece dell’amore per i fratelli e del non giudicare. La parola chiave qui è un aggettivo, misericordioso, espresso in greco con un termine raro, oiktirmon, che significa aver compassione di qualcuno, partecipare alla sorte di qualcuno.

Per concludere però vogliamo accennare a come le parole di Gesù, così esigenti, sono state interpretate nella storia, ovvero nei modi più svariati: letture allegorica, escatologica, fondamentalista, sociologica…, molte di queste letture sono poi risultate infondate. Due correnti di pensiero sono particolarmente interessanti per il nostro discorso. La prima cattolica, l’altra protestante.

Nella storia dell’interpretazione cattolica del discorso della montagna e delle parallele parole di Luca, ha avuto fortuna quella – consolidatasi nel medioevo – che presentava due livelli di adesione a Gesù Cristo e alle sue parole. Per alcuni, si pensava, è possibile vivere le esigenti parole del Maestro: ma possono farlo se si ritirano dal mondo, mettendo così volontariamente in pratica i consigli di Gesù, dati però non a tutti, ma solo ad alcuni “chiamati”; per altri, invece, la massa dei battezzati, soltanto alcune parole del discorso della montagna venivano ritenute obbliganti, i precetti. Questa posizione viene standardizzata da Tommaso d’Aquino, per il quale tutti sono chiamati a vivere secondo i precetti o i comandamenti necessari alla salvezza; un certo numero, chiamato allo stato di perfezione, è invitato a seguire i consigli evangelici che il Signore ha aggiunto ai precetti della Legge; i comandamenti implicano un obbligo, i consigli sono lasciati alla libera opzione. Questa interpretazione però non era diffusa, sembra, nei primi secoli della cristianità, dove invece si credeva che le esigenze del discorso della montagna si rivolgessero a tutti e da tutti potevano essere vissute.

A questa comprensione delle parole evangeliche si può agganciare quella della cosiddetta “ortodossia luterana”. Qui nasce una estremizzazione dell’atteggiamento nei confronti del discorso della montagna: la “teoria dell’inattuabilità” (Jeremias). Le parole di Matteo e di Luca della montagna (pianura) non si possono mettere in pratica fedelmente, così come la Legge dell’Antico Testamento non può essere attuata fino in fondo. Ma perché allora Gesù avrebbe detto ai discepoli quella parola che chiede di amare i nemici, di porgere l’altra guancia, ecc.? «Affinché ciascuno, volendola seguire, faccia esperienza della sua condizione peccatrice e, messo in questo modo alle strette dalla disperazione, si apra per mezzo della fede alla grazia che salva» (Dumais). Insomma, un’etica impraticabile per principio.

Cosa può aver portato, da una parte, a credere che Gesù non si rivolgesse a tutti (distinzione tra precetti e consigli), e, dall’altra, a pensare che il discorso della pianura (della montagna) fosse inattuabile? Forse la paura di metterlo in pratica o il prezzo da pagare per farlo? Meglio “smontarlo”, in qualche modo velato (non “vale” per tutti), o anche esplicito (non si può vivere). Giustamente all’interno del protestantesimo reagisce Dietrich Bonhoeffer. Martire del nazismo, commenta in Sequela il discorso della montagna, arrivando a scrivere: «Chi usa la Parola di Gesù diversamente che agendo, dà torto a Gesù, nega il sermone sulla montagna, non mette in atto la sua parola. Dal punto di vista umano ci sono infinite possibilità di intendere e di interpretare il sermone sulla montagna. Gesù conosce una sola possibilità: andare e obbedire». Le parole del teologo riformato interrogano ancora oggi la nostra coerenza e ci sfidano. Il discorso della pianura di Luca si può mettere in pratica, non grazie alle nostre capacità, ma con l’aiuto di Dio. L’etica cristiana è praticabile, purché tenga al centro la grazia.

In questo senso si apre la celebrazione eucaristica di oggi, pregando con la preghiera colletta: «Padre clementissimo, che nel tuo unico Figlio ci riveli l’amore gratuito e universale, donaci un cuore nuovo, perché diventiamo capaci di amare anche i nostri nemici e di benedire chi ci ha fatto del male» (Secondo formulario).

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