Il vangelo di questa domenica è tratto ancora una volta dall’ultimo discorso di Gesù trasmessoci dall’evangelista Giovanni. In questo tempo di Pasqua – mentre contempliamo anche noi il Risorto che si lascia vedere dai discepoli – dobbiamo tornare indietro nello sviluppo cronologico del racconto giovanneo, per recuperare almeno alcuni dati essenziali. Siamo infatti nel contesto della cena d’addio di Gesù coi discepoli, e la scena si apre con la descrizione dell’uscita di Giuda («Quando Giuda fu uscito…»). Dal versetto trentesimo del nostro capitolo apprendiamo che «era notte». Ma in questa notte – la notte della tragedia che sta per consumarsi – una luce comunque risplende: la gloria del Figlio dell’Uomo.
La Glorificazione. Nel linguaggio e nella teologia di Giovanni la gloria (in greco: doxa) è la «manifestazione visibile della maestà di Dio in atti di potenza» (Raymond Brown). Ma l’originalità del Quarto vangelo risiede soprattutto nel fatto che la doxa-gloria di Dio era già visibile nel ministero di Gesù, nella sua passione, e non solo dopo la risurrezione. La gloria di Gesù si manifesta a Cana («Così Gesù diede inizio ai suoi segni in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui»; Gv 2,11), e negli altri “segni” (Giovanni non usa il lessema “miracoli”) da lui compiuti, e infine nella sua risurrezione, il segno della potenza di Dio per eccellenza. Giovanni concepisce gli avvenimenti della passione, morte e risurrezione come un tutt’uno, e quindi anche nella sconfitta della croce – che ha il suo prologo qui, nella pagina odierna, nel tradimento di Giuda – risiede la potenza di Dio. Anzi. È proprio lì, sulla croce, il segno più grande della potenza di Dio: perché, a ben vedere, non di una qualsiasi morte si tratta, ma della morte del Messia.
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Il comandamento nuovo. Mentre, dopo l’uscita di Giuda dal “cenacolo”, Gesù sta dando l’addio ai suoi, lascia loro il «comandamento nuovo». Di quale novità sta parlando Gesù? L’amore è forse qualcosa di nuovo? La legge dell’amore non si trova forse già nel Primo Testamento? Certo che sì. E non ne parlavano anche i filosofi? Non è un precetto anche in altre religioni? La novità cristiana dell’amore è forse nel come: sarà detto anche più avanti, in Gv 15,12: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati». Gesù infatti ha amato i suoi fino alla fine (cf. Gv 13,1), dando per essi la sua vita, non risparmiandosi la sofferenza. Ma c’è una novità anche nel chi. Colui che ha amato i suoi è il Figlio di Dio, e solo per questo – per la sua morte e risurrezione – ha potuto liberare gli uomini dalla schiavitù del peccato (lo spiegherà Paolo nel cap. sesto della Lettera ai Romani). Nelle parole del Vangelo di oggi è quindi nascosto il mistero della redenzione, della liberazione dai peccati, pagata a caro prezzo con l’amore del Figlio. Se terrete questa memoria nel cuore, dice Gesù all’ultima cena, potrete amarvi anche voi allo stesso modo.
Il segno di riconoscimento. Essere discepoli di Gesù non dipenderà allora da segni esteriori. Si veda quel bellissimo testo del sec. II–III d.C. che è la Lettera a Diogneto: «I cristiani non si differenziano dagli altri uomini né per territorio né per lingua o abiti. Essi non abitano in città proprie né parlano un linguaggio inusitato; la vita che conducono non ha nulla di strano. Abitano nella propria patria, ma come stranieri, partecipano a tutto come cittadini, e tutto sopportano forestieri, ogni terra straniera è la loro patria e ogni patria è terra straniera. Amano tutti e da tutti sono perseguitati». Da cosa ci si riconosce quando seguiamo il Cristo? Dal “segno” che portiamo, l’essere stati amati dal Cristo, e di conseguenza dal poter amare gli altri, tutti – dice l’antico scritto cristiano.
Che cosa dovrebbero vedere i non cristiani in noi? È allora a questa domanda che risponde Giovanni. Nel nostro tempo è diventata una domanda nuovamente pressante. Il teologo Hans Urs Von Balthasar scriveva una ventina d’anni fa un trattato, Solo l’amore è credibile, che ben si addice a questo tempo di neo-paganesimo. «La prima cosa che deve saltare agli occhi del non cristiano nella fede cristiana è il fatto che essa palesemente osa molto, troppo. È troppo bello per essere vero: il mistero dell’essere svelato come amore assoluto, che si abbassa a lavare i piedi, anzi le anime delle sue creature e prende su di sé tutta la bruttura della colpa, tutto l’odio che si scatena contro Dio e tutte le brutali e feroci accuse scagliate contro di lui, tutto lo scherno dell’incredulità che circonda e ricopre la sua apparizione e manifestazione, tutto il disprezzo che conclude nell’inchiodamento sulla croce la sua incomprensibile discesa fra le creature: tutto egli prende su di sé, per scolpare dinanzi a se stesso ed al mondo tutta la sua creatura. Questa è davvero troppa bontà».
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