Padre Giulio Michelini – Commento al Vangelo del 13 Febbraio 2022

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Beatitudini e guai

Probabilmente non c’è nessuna altra parte dei vangeli che sia stata sottoposta a tante interpretazioni diverse come il brano il discorso in pianura di Luca, meglio noto nella versione matteana del discorso della montagna.

Se ci concentriamo sulla versione lucana vediamo che le beatitudini di questo vangelo – diversamente da quelle di Matteo (Mt 5,3-11) – sono accompagnate da guai. Questi ultimi servono a spiegare le prime, le presuppongono e sono la loro controparte, cosicché le beatitudini sono poste su uno sfondo negativo e risaltano meglio. Cosa succede se estrapoliamo i guai dal contesto e li isoliamo? «Guai ai ricchi, guai a coloro che sono sazi, guai a chi ride…». Se non fossero di Gesù, potremmo pensare che queste parole vengono da chi condanna le ricchezze e i ricchi, o da chi non sa godersi la vita, che non riesce a gustare le gioie della tavola, o che non tollera che gli altri siano allegri e ridano. Soffermiamoci su quest’ultima idea: sarebbe terribile se avessimo in mente un cristianesimo “triste”. Al contrario, il cristianesimo è la religione della gioia, come anche papa Francesco ci ha ricordato, inserendo la parola gaudio nei suoi scritti magisteriali più importanti.

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Beati senza condizioni.

Le beatitudini nell’Antico Testamento – soprattutto nella letteratura sapienziale – sono quelle indicazioni, quei segnali, che vengono dati da Dio perché l’uomo giunga al traguardo della felicità: «beato l’uomo che non cammina in compagnia dei malvagi e nella strada dei peccatori» (Sal 1,1). Se si seguono le indicazioni, si sarà felici; se si preferisce un’altra strada, iniziano i guai. I “guai” sono allora delle necessarie messe in guardia: non maledizioni, ma “avvisi”, al modo di quelli che davano gli antichi profeti, circa il modo in cui il Regno lavora nel mondo.

Anche nel Nuovo Testamento si incontrano molte beatitudini: solo in Luca ne sono elencate quindici, due in più rispetto a Matteo. Nelle beatitudini del discorso della pianura o della montagna però – rispetto al Primo Testamento – vi è qualche significativa differenza. Gesù non sembra porre condizioni alle beatitudini. Dichiara già felici coloro che sono in una determinata situazione, e non dice, ad esempio, “siate poveri”; si rivolge – dichiarandolo beato – a chi povero già lo è. «Il macarismo di Gesù non formula nessun comportamento previo come condizione per essere dichiarato beato» (Rossé). La differenza di senso è importante. Gesù annuncia sì una felicità, ma una felicità paradossale, che c’è, ma è difficile da cogliere subito, a prima vista, con gli “occhi” del mondo. Le beatitudini, per Gesù, come i guai, non sono innanzitutto un invito ad un’etica da mettere in pratica: sono l’annuncio di una novità, un modo nuovo di vivere la vita e di pensarla, perché tutto è visto in rapporto a Dio, cioè al suo Regno.

Gli occhi della fede. Come riuscire a vedere le beatitudini nei poveri, negli indigenti, nei sofferenti, nei perseguitati? O meglio ancora: come possiamo anche noi, nelle nostre personali povertà, nelle nostre sofferenze, ecc., riconoscerci beati? Cosa permette di leggere una situazione e di giudicarla come benedetta e non una maledizione, una disgrazia? La beatitudine “funziona” solo per chi ha fede. Lo sguardo di fede salva la nostra vita. Per usare un’immagine molto importante per la teologia della rivelazione, potremmo dire che servono gli occhi della fede (P. Rousselot, Les yeux de la foi, 1910; trad. it. Gli occhi della fede, Milano 1974). Nella fede c’è la possibilità di vedere in un modo diverso. La fede rende capaci gli occhi di cogliere ciò che altrimenti rimane sotto la superficie. Rousselot scriveva che come un detective cerca nella realtà quegli indizi che lo portano a trovare la soluzione al suo problema, allo stesso modo il credente può, in forza della grazia, riconoscere quei segni che Dio pone nella sua vita. Senza la grazia si vede il fallimento, la morte, la fame, la disperazione. Con la fede si vede in essi, nonostante tutto, la presenza di Dio. È allora chiaro perché Gesù non pone condizioni all’essere beati. Solo una è la condizione previa: credere alla sua Parola.

La beatitudine dell’ascolto. Ecco forse perché Luca ci trasmette – lui solo – la beatitudine degli ascoltatori della Parola, in Lc 11,28: «Beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la custodiscono». È l’unico modo per accorgersi della beatitudine nelle varie situazioni della vita: ascoltare e custodire la parola e i segni di Dio, come Maria per prima ha fatto.

Poveri, indigenti, nella sofferenza, perseguitati. Il primo paradosso, la prima beatitudine dell’elenco, sia in Luca sia in Matteo, è l’annuncio della felicità ai poveri, che quindi diventano – anzi, lo sono già – i primi destinatari del Regno. La vera povertà non è l’indigenza o la miseria, ma lo stato di chi, come gli anawim del Primo Testamento, sono capaci di accogliere Dio perché sanno di non avere nulla e di attendersi tutto da lui. Guai ai ricchi, invece, dice Gesù, quando sono schiavi delle ricchezze, perché ripongono in esse la sicurezza della vita e ritengono che il loro essere dipenda dall’avere (cf. Lc 12,15).

Vedere la beatitudine nella povertà e nella fame non ci lascia comunque tranquilli o senza dolore. La fede, la fiducia in Dio, come scrive il Manzoni, non basta a tenere lontani i problemi: piuttosto «li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore». Ma quando vediamo l’altro nel bisogno, ci dobbiamo sempre domandare perché: quelli che oggi hanno fame e piangono, probabilmente lo sono anche a causa di coloro che ora sono saziati e ridono.

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