padre Giovanni Vannucci – Commento al Vangelo per domenica 2 Maggio 2021

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La vera vite 

«Io sono la vera vite, voi i tralci» (Gv 15, 5). Nella frazione del pane, che è la partecipazione immediata alla viva realtà di Cristo ieri, oggi, domani, Gesù ci ha rivelato che la sua parola, la sua persona, costituiscono un’energia che accresce, in estensione e in profondità, i nostri rapporti di comunione e di amore con ogni concreto essere; non solo con gli uomini, ma con tutto ciò che esiste sulla terra e nel cielo.

Essere uniti nella comunione-manducazione del Pane disceso dal cielo significa che l’amore di Cristo, discendendo nella nostra coscienza, la dilata oltre tutti i possibili limiti, personali, razziali, religiosi, morali entro i quali nell’esistenza può trovarsi coartata. Unendoci a Cristo ci uniamo a tutti gli esseri che la Parola creatrice ha chiamato all’esistenza.

«In Cristo Gesù non c’è più l’Ebreo e il Greco, lo schiavo e il libero, l’uomo e la donna, ma tutti siamo in Lui un’unica realtà vivente» (Gal 3, 28). Parole che, vissute nella loro forza liberatrice, hanno raggiunto, in alcuni cristiani, la definitiva apertura liberatrice: fratello o sorella sono il sole, la luna, il vento, il fuoco, l’acqua, la morte per il Poverello di Assisi; e Giovanni della Croce, emergendo dalla notte oscura, dice: mio è il sole, mia la luna, mie le stelle, mia la Madre di Dio, mie tutte le creature.

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Il senso dell’ascesi o dell’ascesa cristiana non è forse nella dilatazione della propria coscienza personale in un abbraccio vivente con tutti gli esseri, il buono e il malvagio, l’uomo e la donna, l’ortodosso e il peccatore, la luce e l’ombra?

Il mistero del pane è nella sua apertura universale senza tesseramenti, a tutte le fami; il pane ha l’universalità dell’amore di Cristo, e il cristiano nel suo impegno indefesso è chiamato a rimuovere i pali della sua tenda fino all’estensione infinita dell’Essere.

Viviamo in Cristo se abbiamo, o se cerchiamo di avere, in un implacabile rinnovamento interiore, l’apertura universale dei figli di Dio.

La metafora della vite e dei tralci ci descrive questo complesso scambio tra Cristo e i fedeli, tra i fedeli e gli altri esseri creati. Vivere della linfa di Cristo vuol dire accettare il rovesciamento da Lui operato di tutti i particolarismi e di tutte le chiusure. Gesù è il punto di inversione di ogni movimento limitante o settario.

«Io sono la vite», dice Cristo; ciascuno di noi è chiamato a ripetere, nella vastità della coscienza dei figli di Dio, «io sono il tralcio che vive della linfa di Cristo». Cioè io non sono di Pietro, di Paolo, di Giovanni, di Abramo, di Buddha, di Maometto… ma io sono universale come il Figlio di Dio.

Possiamo dire «io sono di questa nazione», e nasce la limitata coscienza razziale; oppure «io sono di questa famiglia» e nasce la coscienza di clan; ovvero «io sono di questa religione storica» e nasce la coscienza di ghetto. Ma quando diciamo «io sono il tralcio della vite che è Cristo» nasce la coscienza universale dei figli di Dio. Nelle altre affermazioni, l’io individuale è sottoposto e coartato dalle costumanze e leggi del gruppo di cui afferma di essere membro. Quando asserisce con piena adesione alle sue parole, «io sono il tralcio che vive della linfa di Cristo», assurge a un piano di piena libertà e universalità. È libero dai vincoli dell’anima-gruppo.

«L’uomo che non ha ricevuto lo Spirito di Dio non è m grado di accogliere la verità che lo Spirito di Dio fa conoscere. Colui che ha ricevuto lo Spirito giudica tutto in modo spirituale, ma lui, nessuno può giudicarlo» (1 Cor 2, 14-15). Tale ascesa nella libertà dello Spirito non significa che uno divenga legge a se stesso e agli altri; la vastità della sua coscienza è alimentata e nutrita dalla linfa della Vite-Cristo.

La Redenzione operata da Cristo ci affranca da ogni forma di schiavitù, di gregarismo. Redenzione significa assunzione cosciente delle nostre responsabilità di figli di Dio, identificazione di noi stessi nello sconfinato amore di Cristo, capacità d’intendere e di volere propria di uomini consapevoli dell’elemento divino che in loro opera: la linfa della Vite-Cristo. Capacità di intendere e di volere significa intendere e volere la verità, anche se si dovesse andare incontro a grossi guai, compresa la perdita della libertà e della vita, perché chi vorrà salvare la propria vita la perderà, chi non vorrà la troverà salva.

La linfa di Gesù alimenta un’umanità di uomini forti e liberi che da Lui hanno e riconoscono non solo le leggi, ma, essenzialmente, il principio vitale dell’apertura della loro coscienza. Gesù è l’Iddio dei forti, è l’Iddio che solo i veramente forti possono riconoscere e adorare. Allora si vive nella Chiesa, il Corpo mistico di Cristo, non per paura della solitudine, non per desiderio di essere inseriti in un gruppo che ci protegga, o per un’accomodante accettazione della Chiesa, giustificata con il «non si sa mai».

Colui che sente salire nelle proprie vene la linfa della Vite-Cristo sente risvegliarsi nel suo profondo la divina scintilla, la sente sostanzialmente reale e vuole, con tutto il cuore, redimerla, riscattarla, aiutarla a raggiungere la statura dell’Uomo-Figlio di Dio, non nato da volontà di carne o di uomo ma da Dio. Forse per essere redenti bisogna rendersi conto che si è schiavi finché rimaniamo separati dalla Vite-Cristo.

1 Giovanni Vannucci, «La vera vite» 05a domenica di Pasqua Anno B; in Verso la luce, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 82-84.

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