Padre Ezio Casella – Il Tempo di Avvento

617

La parola «Avvento» deriva dal latino adventus e vuol dire «venuta». Traduce la parola greca parousia o epiphaneia. È una parola di  origine profana che indicava la prima visita di un personaggio importante in una città o una regione, o anche il momento di inizio dell’esercizio del suo incarico. Il prefisso «ad» ha il senso di una venuta da molto lontano. Il simbolo più eloquente dell’Avvento è l’etimasia, una sedia vuota, raffigurata spesso negli antichi mosaici delle chiese. Il tempo di Avvento è un tempo breve, di appena 4 settimane, ma di una grande ricchezza teologica. Considera infatti tutto il mistero della venuta del Signore nella storia fino al suo concludersi. Questo breve tempo che apre l’anno liturgico si inserisce in un tempo più lungo, che si chiama «tempo della manifestazione» e che si concluderà con la domenica dopo l’Epifania, cioè con il Battesimo del Signore.

C’è dunque una profonda unità tematica data dall’evento celebrato: la venuta del Signore. Infatti nell’Avvento noi celebriamo il mistero della venuta del Signore con un atteggiamento gioioso, fatto di vigilanza, di attesa e di accoglienza. Dal 24 dicembre alla domenica che segue la solennità dell’Epifania celebriamo la nascita e la manifestazione del Signore. In realtà si tratta di un movimento unico, che va dall’Avvento all’Epifania. Il medesimo evento, la venuta del Signore, viene preparato in un’atmosfera di attesa e poi viene celebrato nel suo momento iniziale e nelle sue manifestazioni all’umanità intera. In questo tempo la liturgia pone sulle nostre labbra un’invocazione ricca di speranza: Maranathà,

vieni, Signore Gesù. L’oggi nel quale viviamo ci fa toccare la nostra povertà, sia guardando noi stessi, sia le persone che ci circondano, sia le relazioni che vengono costruite. Dentro questa povertà si alza la nostra supplica nello Spirito Santo. Il «Vieni, Signore Gesù» è il grido della speranza. La precarietà della nostra storia non è fonte di scoraggiamento, ma di inesauribile speranza. Noi tocchiamo di continuo i nostri limiti e possiamo essere tentati di rinchiuderci in noi stessi. Dio, però, nella sua fedeltà, ci regala la sua Parola, che diventa il cibo di speranza, e l’istante che viviamo, pur nelle tenebre storiche che lo circondano, è illuminato dalla venuta del Redentore.

Nell’incontro  dei  sacerdoti  ad  Amatrice  del  20  ottobre  2016  mons. Giuseppe Molinari ci ha parlato di una lettera da lui ricevuta, all’indomani del terremoto dell’Aquila, da Alfredo Battisti, arcivescovo di Udine (1925-2012), il quale si era trovato a vivere la tragedia del terremoto del Friuli. Mons. Battisti scrisse quella lettera il 6 maggio 2009, un mese dopo il terremoto dell’Aquila e nel xxxiii anniversario del terremoto del Friuli. E questo grande pastore scriveva tra l’altro: «Oggi 6 maggio 2009 ricorre il xxxiii anniversario del terremoto che ha colpito il Friuli nel 1976, con mille morti sotto le macerie e 120.000 senza casa. Oggi si compie anche il primo mese del terremoto che ha colpito L’Aquila, seminando tanta distruzione e morte. Partecipo fraternamente al dolore Suo e del Suo Popolo e assicuro la mia preghiera. Auguro che, come è accaduto in Friuli, questo tempo duro per la Sua Chiesa sia anche un tempo grande per i valori umani e cristiani riscoperti scavando e piangendo tra le macerie. Il Signore Le dia tanto coraggio e speranza, in Cristo crocifisso e risorto».

Le difficoltà del nostro quotidiano sono la serra della freschezza della nostra speranza. La nostra attesa del Signore non è un’illusione. Il Signore è venuto veramente tra noi mediante la piena assunzione della nostra umanità. Dio non ha mai abbandonato il suo popolo, e tale verità storica anima il nostro cammino verso la luminosità della gloria, soprattutto  nei  momenti  difficili,  riempiendoci  di  coraggio.  L’attesa  non  ci deve distrarre dall’impegno nel presente. Ognuno di noi, mentre si pone in atteggiamento di attesa, si deve lasciar qualificare dall’Atteso, il suo animo deve diventare il nostro, i suoi ideali i nostri, le sua ansie le nostre.

Egli è il Salvatore e noi siamo chiamati a essere rigenerati nel più profondo del nostro cuore. L’attesa è l’espandersi della vitalità divina che vuole renderci pienamente proprietà del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Dobbiamo crescere nella piena statura del volto di Cristo Signore. Il cristiano è uomo di giustizia, pellegrino sulla retta via e cittadino del giorno e della vita, lasciando il vizio, l’indifferenza, e non lasciandosi legare dai lacci che imprigionano alle cose.

Avvento: tempo mariano per eccellenza

La prima festa mariana in Occidente è la Theotokos, dopo il concilio di Efeso del 431. Questa festa si conserva nella liturgia ambrosiana la sesta domenica di Avvento. È la festa dell’incarnazione del Verbo, che non si celebra il 1 gennaio come nel rito romano, ma la domenica che precede il Natale. Le ferie maggiori nel rito ambrosiano si chiamano de exceptato, che in latino significa «dell’accolto», cioè del Figlio di Dio accolto tra noi. Nelle ferie de exceptato si leggono i libri di Rut e di Ester, legati a Betlemme e alla rilettura mariologica della regina Ester che fanno i Padri. Il Vangelo è quello di Luca. Se c’è una domenica prenatalizia che cade la vigilia di Natale, si legge la genealogia di Gesù. Ma la sesta domenica è sempre la solennità dell’Incarnazione, cioè della Theotokos, della divina maternità di Maria.

L’Avvento è il periodo mariano per eccellenza. Maria è la nuova Eva, la sua maternità divina predetta dai profeti, annunciata dall’angelo, manifestata il giorno di Natale e riconosciuta dai Magi. Il nostro atteggiamento di attesa trova dunque un modello splendido in Maria. Non dimentichiamo che in questo tempo celebriamo anche la solennità dell’Immacolata Concezione.

Sviluppo storico

Testimonianze antiche in Occidente sul tempo di Avvento sono quelle di Sant’Ilario (anteriore al 367) e il iv canone del concilio di Saragozza (380).

Sant’Ilario, prendendo spunto dal brano del Vangelo in cui Gesù va a cercare frutti dal fico sterile, dice che vi torna tre volte e così l’Avvento è formato da 3 settimane. Il iv canone del concilio di Saragozza parla di una durata di 21 giorni, tre settimane appunto, dal 17 dicembre all’Epifania, e aggiunge che in questi giorni bisogna essere assidui in chiesa. L’Epifania era una festa battesimale e così il Natale: la prima a motivo del battesimo di Gesù, la seconda perché la nascita di Cristo ci ottiene una seconda nascita, la rigenerazione con il battesimo. Così la preparazione dei catecumeni al battesimo, di tre settimane, ha fatto sviluppare l’Avvento.

Le orazioni collette del tempo di Avvento esprimono gran parte delle tematiche di questo tempo liturgico e quindi suggeriscono anche quali dovrebbero essere i nostri atteggiamenti nelle settimane che aprono l’anno liturgico. Il nuovo Messale Romano ne contiene ventinove: sono testi molto antichi. Undici provengono dal Rotolo di Ravenna (quaranta orazioni dei secoli v-vi dal prevalente carattere cristologico e mariano, a sfondo nettamente natalizio), sette provengono dal Gelasiano antico, due dal Sacramentario Bergomense e nove dal precedente messale.

La prima domenica presenta in modo esplicito la prospettiva escatologica: il Cristo che viene e verso il quale vogliamo andare incontro con le buone opere (colletta proveniente dal Gelasiano 1139, dove era un’orazione dopo la comunione). Ecco allora il primo atteggiamento: quello di un’attesa operosa.

Mentre il Messale Romano del 1570 conteneva solo otto prefazi, la terza editio typica del messale di Paolo vi ne contiene novantadue, due dei quali per l’Avvento. I due nuovi prefazi condensano il meglio di ciò che può produrre la capacità creativa contemporanea, radicata nella tradizione. Il Prefazio ii ricorda le persone che sono in primo piano nelle letture degli ultimi otto giorni di Avvento: i profeti, la Vergine Madre, il Battista. Esso rammenta che Gesù «fu annunciato da tutti i profeti, la Vergine Madre lo attese e lo portò in grembo con ineffabile amore, Giovanni proclamò la sua venuta e lo indicò presente nel mondo». Il Prefazio i parla di due venute di Cristo, il Prefazio ii di una sola venuta, ma di due gruppi che la attendono. Il primo gruppo è quello dei profeti, della Vergine Madre e del Battista, il secondo gruppo siamo noi. Quelli lo hanno atteso nel passato, noi lo attendiamo nel presente.

Spiritualità dell’Avvento

L’evangelista  Luca,  nel  libro  degli  Atti  degli  Apostoli,  raccontando l’evento dell’Ascensione, scrive: «Mentre lo guardavano, Gesù fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (At 1, 10-11). All’inizio dell’anno liturgico è come se la liturgia si concedesse una “disobbedienza” agli angeli che invitavano Pietro e gli altri a guardare altrove. Così la Chiesa Sposa, che vive nell’attesa del ritorno dello Sposo, conserva nel cuore quello sguardo rivolto verso il cielo e ogni anno, nel tempo di Avvento, torna a lanciarlo in alto per poter scorgere la venuta del suo Signore.

L’Avvento non è, quindi, una semplice preparazione al Natale, quasi dovessimo fingere che Gesù non sia nato per poi doverci fintamente stupire della sua nascita nella notte santa. Esso è piuttosto il “sacramento” della venuta del Signore, perché memoria viva della sua incarnazione, attualizzazione del suo venire oggi dentro la nostra vita, anticipazione della sua venuta definitiva.

Nell’attesa la Chiesa, come ogni sposa, non ha altra occupazione se non quella di farsi bella per lo Sposo. Lo Spirito Santo è il suo “cosmetico” che agisce operando la sua conversione non con la paura per la minaccia dell’arrivo di un giudice severo, ma con la gioia per il ritorno   dello Sposo. Per questo lo Spirito e la Sposa dicono: «Vieni!» (Ap 22, 17). L’invocazione che riempie il tempo di Avvento è già forte della presenza del Signore che, venuto nel suo Natale nella carne, rimane con noi nel suo Santo Spirito del quale la nostra carne è tempio. Se ogni anno noi celebriamo l’Avvento, esso non è la semplice ripetizione di quello precedente. È una nuova venuta del Signore nella Chiesa, nelle anime, nel mondo. Il simbolo più eloquente dell’Avvento è l’Etimasia, il trono vuoto degli antichi mosaici che vediamo in alcune nostre chiese, segno del nostro cuore che ha bisogno di accogliere ogni volta la tenerezza e l’amore di Dio.

In una sua poesia David Maria Turoldo descriveva con queste parole il grido dell’uomo che invoca la venuta del Signore:

Vieni di notte, ma nel nostro cuore è sempre notte: e dunque vieni sempre, Signore.
Vieni in silenzio, noi non sappiamo più cosa dirci:
e dunque vieni sempre, Signore.
Vieni in solitudine, ma ognuno di noi è sempre più solo: e dunque vieni sempre, Signore.
Vieni, figlio della pace, noi ignoriamo cosa sia la pace: e dunque vieni sempre, Signore.
Vieni a liberarci, noi siamo sempre più schiavi:
e dunque vieni sempre, Signore.
Vieni a consolarci, noi siamo sempre più tristi:
e dunque vieni sempre, Signore.
Vieni a cercarci, noi siamo sempre più perduti:
e dunque vieni sempre, Signore.
Vieni, tu che ci ami, nessuno è in comunione col fratello se prima non è con te, o Signore.
Noi siamo tutti lontani, smarriti, né sappiamo chi siamo, cosa vogliamo:
vieni, Signore. Vieni sempre, Signore.

Corona dell’Avvento

Cosa significa la corona dell’Avvento e come va realizzata? Purtroppo a volte ci è dato di vedere nelle chiese “accozzaglie” di candele o addirittura lampade a olio tra ramoscelli o fiori di ogni specie, senza nessun richiamo alla forma circolare della corona, e con colori d’ogni genere.

La  corona  d’Avvento  deve  avere  quattro  candele  viola,  va  realizzata con ramoscelli di abete, senza fiori, e può essere collocata vicino all’ambone.

Qual è il significato delle quattro candele della corona d’Avvento? Ogni tempo liturgico ha i propri segni che lo contraddistinguono. Anche l’Avvento ha i suoi. La corona d’Avvento ha origine nel Nordeuropa e, negli ultimi anni, è entrata con forza nelle nostre comunità cristiane. Si può suggerire di realizzarla in famiglia, ma nulla vieta che possa essere collocata in chiesa, preferibilmente nei pressi dell’ambone.

Essa consiste in un supporto circolare sul quale vengono collocate quattro candele (il colore viola è quello più appropriato). La forma circolare indica il tempo che ciclicamente ritorna, ma simboleggia anche l’attesa del ritorno di Cristo, luce e vita. È rivestita di rami di abete: nel cuore dell’inverno, quando si aspetta la primavera, gli abeti rimangono del colore della vita e della speranza mentre tutti gli altri alberi sono spogli. Le candele si accendono una alla volta, sempre le stesse, in corrispondenza delle quattro domeniche di Avvento: nel loro consumarsi si vede visibilmente il passare del tempo e l’avvicinarsi del Natale, mentre di settimana in settimana la luce aumenta. Niente lampade a olio o lumini elettrici….

Queste candele simboleggiano le quattro settimane del tempo d’Avvento e vengono accese una ogni domenica. La corona deve essere collocata in un luogo visibile del presbiterio, vicino all’ambone, su un tavolino o su un tronco d’albero, o pendente dal soffitto. La corona pendente dall’alto è la collocazione tradizionale, come un vero candelabro: la luce scende dall’alto.

Rito per l’accensione del primo cero della corona

(da compiersi al vespro o durante la messa domenicale)

Dopo  l’orazione  colletta,  mentre  si  esegue  un  canto  adatto,  ad  esempio  Tu quando verrai, viene portato processionalmente all’ambone il lezionario o levangeliario, preceduto da un ministrante che reca con sé una lampada accesa. Il sacerdote o il diacono riceve il libro tenendolo in alto, ben visibile, e lo colloca sull’ambone, dopo di che accende dalla lampada il primo cero della corona e torna alla sede.

Quindi pronuncia la seguente monizione:

Nell’Avvento celebriamo il mistero sempre in atto della venuta di Gesù. Così canta la liturgia: Al suo primo Avvento, nell’umiltà della nostra natura umana, egli portò a compimento la promessa antica e ci aprì la via dell’eterna salvezza. Verrà di nuovo nello splendore della sua gloria e ci chiamerà a possedere il Regno promesso che ora osiamo sperare vigilanti nell’attesa.

Ti rendiamo grazie, o Padre, per questo tempo che ci doni. Concedi che ci lasciamo veramente visitare dalla tua grazia. Vinci, nella nostra comunità parrocchiale, la pigrizia, la noia, il senso del “sempre uguale”, e insegnaci a ripartire, come veri discepoli di Cristo tuo Figlio. Vinci la nostra ignoranza, quella che ci fa pensare di averti già conosciuto a sufficienza. Vinci la nostra freddezza, quella che ci fa pensare di averti già amato abbastanza. Ravviva nei nostri cuori la luce della fede, la forza della speranza e l’ardore della carità, per Cristo nostro Signore. Amen.

Invochiamo la venuta di Cristo, sole che sorge dall’alto, perché ci porti la grazia della luce eterna. Dopo che abbiamo conosciuto la luce, aiutaci, o Padre, a non desiderare più le tenebre; dopo che abbiamo intuito la via della pace, non lasciare più che siamo tentati dall’arroganza e dall’egoismo; dopo che ci hai rivestiti del Signore Gesù e ci hai introdotti nella vita dello Spirito, non permettere che siamo sedotti dai desideri della carne.

Disponiamoci ora all’ascolto della Parola, lampada ai nostri passi, per andare incontro con le buone opere a Cristo che viene.

Segue la proclamazione delle letture bibliche.

A cura dell’Ufficio Liturgico Diocesano della Chiesa di Rieti