Alle ore 9.00 del 3 dicembre 2021, nell’Aula Paolo VI, il Predicatore della Casa Pontificia, Em.mo Card. Raniero Cantalamessa, O.F.M. Cap., ha tenuto la prima Predica di Avvento sul tema: “Quando venne la pienezza del tempo Dio mandò Suo Figlio (Galati 4, 4)“.
Le successive prediche di Avvento avranno luogo venerdì 10 e venerdì 17 dicembre.
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DIO MANDÒ SUO FIGLIO PERCHÉ RICEVESSIMO LA ADOZIONE A FIGLI
Nella Quaresima scorsa ho cercato di mettere in luce il pericolo di vivere “etsi Christus non daretur”, “come se Cristo non esistesse”. Continuando in questa linea, nelle meditazioni di Avvento vorrei attirare l’attenzione su un altro pericolo analogo: quello di vivere “come se la Chiesa non fosse che questo”, e cioè scandali, controversie, scontro di personalità, pettegolezzi o al massimo qualche benemerenza nel campo sociale. In breve, cosa di uomini come tutto il resto nel corso della storia.
Quello che mi propongo è di mettere in luce lo splendore interiore della Chiesa e della vita cristiana. Non per chiudere gli occhi sulla realtà dei fatti o per sottrarci alle nostre responsabilità, ma per affrontarle nella prospettiva giusta e non lasciarci schiacciare da esse. Non possiamo chiedere ai giornalisti e ai media di tenere conto di come la Chiesa interpreta se stessa (anche se sarebbe auspicabile che lo facessero), ma la cosa più grave sarebbe se anche noi uomini di Chiesa e ministri del Vangelo finissimo per perdere di vista il mistero che abita la Chiesa e ci rassegnassimo a giocare sempre fuori casa, in trasferta e sulla difensiva.
“Noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta”, ha scritto l’Apostolo parlando dei ministri del Vangelo (2 Cor 4,7). Questo è verissimo, ma sarebbe da stolti passare tutto il tempo a discutere del “vaso di creata”, dimenticando “il tesoro” che vi è dentro. L’Apostolo ci aiuta a cogliere addirittura il positivo che c’è in tale situazione. Questo, dice, avviene “affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi (2 Cor 4,7).
Succede con la Chiesa come con le vetrate di una cattedrale. (Io ne ho fatto l’esperienza visitando quella di Chartres). Se uno guarda le vetrate dall’esterno, dalla pubblica via, non vede che pezzi di vetro scuro tenuti insieme da strisce di piombo altrettanto scure. Ma se si entra dentro e si guardano quelle stesse vetrate contro luce, che splendore di colori, di storie e di significati davanti ai nostri occhi! Ecco, noi ci proponiamo di guardare la Chiesa da dentro, nel senso più forte della parola, alla luce del mistero di cui è portatrice.
In Quaresima ci ha fatto da guida il dogma calcedonese di Cristo vero uomo, vero Dio e una persona. Al presente ci farà da guida uno dei testi liturgici più tipici dell’Avvento, e cioè Galati 4, 4-7. Esso dice:
“Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli. E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: «Abbà! Padre!». Quindi non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede per grazia di Dio.”
Nella sua brevità, questo brano è una sintesi di tutto il mistero cristiano. C’è presente la Trinità: Dio Padre, il Figlio suo e lo Spirito Santo; c’è l’incarnazione: “ Dio mandò suo Figlio”; tutto questo non in astratto e fuori del tempo, ma in una storia di salvezza: “nella pienezza del tempo”. Non manca neppure la presenza, discreta ma essenziale, di Maria: “nato da donna”. C’è finalmente il frutto di tutto ciò: uomini e donne resi figli di Dio e tempio dello Spirito Santo.
Figli di Dio!
In questa prima meditazione riflettiamo sulla prima parte del testo: “Dio mandò il suo Figlio, perché ricevessimo l’adozione a figli”. La paternità di Dio è al cuore stesso della predicazione di Gesú. Anche nell’Antico Testamento Dio è visto come padre. La novità è che ora Dio non è visto tanto come “padre del suo popolo Israele”, in senso per così dire collettivo, ma come padre di ogni essere umano, giusto o peccatore che sia: in senso dunque individuale e personale. Si preoccupa di ognuno come fosse l’unico; di ognuno conosce i bisogni, i pensieri e conta persino i capelli del capo.
L’errore della Teologia liberale, a cavallo tra il secolo XIX e il XX (soprattutto nel suo più illustre rappresentate, Adolf von Harnack), è stato quello di fare di questa paternità l’essenza del Vangelo, prescindendo dalla divinità di Cristo e dal mistero pasquale. Un altro errore (iniziato con l’eresia di Marcione nel II secolo e mai del tutto superato) è di vedere nel Dio dell’Antico Testamento un Dio giusto, santo, potente e tonante, e nel Dio di Gesú Cristo, un Dio papà tenero, affabile e misericordioso.
No, la novità di Cristo non consiste in questo. Consiste piuttosto nel fatto che Dio, rimanendo quello che era nell’Antico Testamento e cioè tre volte santo, giusto e onnipotente, viene ora dato a noi come papà! È questa l’immagine fissata da Gesú all’inizio del Padre nostro e che contiene in nuce tutto il resto: “Padre nostro che sei nei cieli”: “che sei nei cieli”, cioè che sei altissimo, trascendente, che disti da noi quanto il cielo dalla terra; ma “padre nostro”, anzi nell’originale “Abba!”, qualcosa di simile al nostro papà, padre mio.
È anche l’immagine di Dio che la Chiesa ha posto all’inizio del suo credo. “Credo in Dio, Padre onnipotente”: padre, ma onnipotente; onnipotente, ma padre. È questo, del resto, ciò di cui ogni figlio ha bisogno: di avere un padre che si china su di lui, che sia tenero, con cui può giocare, ma che sia, al tempo stesso, forte e sicuro per proteggerlo, infondergli coraggio e libertà.
Nella predicazione di Gesù si comincia a intravedere la vera novità che cambierà tutto. Dio non è solo padre in senso metaforico e morale, in quanto ha creato e ha cura del suo popolo. È anche – e prima di tutto – padre vero e naturale, di un figlio vero e naturale che ha generato “prima dell’aurora”, cioè prima dell’inizio del tempo, e sarà grazie a questo Figlio unico che gli uomini potranno diventare anch’essi figli di Dio in senso reale e non solo metaforico. Questa novità traspare dal titolo Abbà con cui Gesù si rivolge abitualmente al Padre, come pure dalle parole: “Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt 11, 27).
Si deve prendere atto tuttavia che nella predicazione del Gesú terreno non appare ancora tutta la novità recata da lui circa la paternità di Dio nei confronti degli uomini. L’ambito di applicazione del titolo “Padre” resta quello morale; serve cioè a definire il modo di agire di Dio nei confronti dell’umanità e il sentimento che gli uomini devono nutrire nei confronti di Dio. Il rapporto è di tipo esistenziale, non ancora ontologico ed essenziale. Per questo occorreva il mistero pasquale della sua morte e risurrezione.
Paolo riflette questo stadio post-pasquale della fede. Grazie alla redenzione operata da Cristo e applicata a noi nel battesimo, noi non siamo più figli di Dio in senso solo morale, ma anche reale, ontologico. Noi siamo divenuti “figli nel Figlio”; Cristo è divenuto “il primogenito tra molti fratelli” (Rom 8,29).
Per esprimere tutto ciò l’Apostolo si serve dell’idea della adozione: “…perché ricevessimo l’adozione a figli”, “Ci ha predestinati a essere suoi figli adottivi” (Ef 1, 5). Questa è solo una analogia e, come ogni analogia, insufficiente ad esprimere la pienezza del mistero. L’adozione umana in se stessa è un fatto giuridico. Il figlio adottivo assume il cognome, la cittadinanza, la residenza di colui che lo adotta, ma non condivide il loro sangue o il DNA del padre; non ci sono stati concepimento, doglie e parto. Per noi non è così. Dio non ci trasmette solo il nome di figli, ma anche la sua vita intima, il suo Spirito che è, per così dire, il suo DNA. Per il battesimo, in noi scorre la vita stessa di Dio.
Su questo punto, Giovanni è più ardito di Paolo. Egli non parla di adozione, ma di vera e propria generazione, di nascita da Dio. Quelli che hanno creduto in Cristo “sono stati generati da Dio” (Gv 1, 13); nel battesimo si realizza una nascita “dallo Spirito”, si “rinasce dall’alto” (cf. Gv 3, 5-6).
Dalla fede allo stupore
Fin qui le verità della nostra fede. Non è su di esse però che vorrei insistere. Sono cose che conosciamo e che possiamo leggere in qualsiasi manuale di teologia biblica, nel Catechismo della Chiesa Cattolica e nei libri di spiritualità… Qual è allora la cosa diversa che ci prefiggiamo con questa riflessione?
Parto, per scoprirla, da una frase del nostro Santo Padre nella catechesi sulla Lettera ai Galati dell’udienza generale dell’8 Settembre scorso. Dopo aver citato il nostro testo sull’adozione a figli, egli aggiungeva: “Noi cristiani diamo spesso per scontato questa realtà di essere figli di Dio. È bene invece fare sempre memoria grata del momento in cui lo siamo diventati, quello del nostro battesimo, per vivere con più consapevolezza il grande dono ricevuto”.
Ecco, questo è il nostro pericolo mortale: dare per scontate le cose più sublimi della nostra fede, compresa quella di essere nientemeno che figli di Dio, del creatore dell’universo, dell’onnipotente, dell’eterno, del datore della vita. San Giovanni Paolo II, nella sua lettera sull’Eucaristia, scritta poco prima della sua morte, parlava dello “stupore eucaristico” che i cristiani dovrebbero riscoprire . Lo stesso dobbiamo dire della figliolanza divina: passare dalla fede allo stupore. Oserei dire: dalla fede all’incredulità! Una incredulità tutta speciale: quella di chi crede, senza potersi capacitare di quello che crede, tanto gli sembra cosa enorme, “incredibile”.
Essere figli di Dio comporta infatti una conseguenza che si osa appena formulare, tanto essa è da capogiro. Grazie ad essa, il divario ontologico che separa Dio dall’uomo è minore del divario ontologico che separa l’uomo dal resto del creato! Sì, perché per grazia noi diventiamo “partecipi della natura divina” (2 Pt 1,4).
Un esempio servirà meglio di tanti ragionamenti a capire cosa significa non dare per scontato l’essere figli di Dio. Dopo la sua conversione, santa Margherita da Cortona trascorse un periodo di terribile desolazione. Dio sembrava adirato con lei e a tratti le faceva tornare alla memoria, uno ad uno, tutti i peccati commessi fin nei minimi dettagli, facendole desiderare di scomparire dalla faccia della terra. Un giorno, dopo la comunione, una voce si levò improvvisa dentro di lei: “Figlia mia!”. Lei che aveva resistito alla visione di tutte le sue colpe, non resistette alla dolcezza di questa voce, cadde in estasi e durante l’estasi i testimoni presenti la sentivano ripetere fuori di sé dallo stupore:
Sono sua figlia, egli l’ha detto. O infinita dolcezza del mio Dio! O parola così a lungo desiderata! Così insistentemente chiesta! Parola la cui dolcezza supera ogni dolcezza! Oceano di gioia! Figlia mia! L’ha detto il mio Dio! Figlia mia! .
Ben prima di santa Margherita aveva sperimentato questa stessa folgorazione l’apostolo Giovanni: “Vedete –scriveva – quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio. E lo siamo realmente!” (1 Gv 3, 1). Una frase, questa, chiaramente da leggere con punto esclamativo.
Slegare il proprio battesimo
Perché è così importante passare dalla fede allo stupore, dalla fede creduta (la fides quae) alla fede credente (fides qua)? Non basta credere e basta? No, e per un motivo molto semplice: perché questo –e questo soltanto – cambia veramente la vita!
Cerchiamo di vedere qual è il cammino che porta a questo nuovo livello di fede. Il Santo Padre, abbiamo sentito, invitava a tornare al proprio battesimo. Per capire come un sacramento ricevuto tanti anni fa, spesso agli inizi della vita, possa improvvisamente tornare a rivivere e a sprigionare energia spirituale, bisogna tener presenti alcuni elementi di teologia sacramentaria.
La teologia cattolica conosce l’idea di sacramento valido e lecito, ma “legato”. Il battesimo è spesso proprio un sacramento legato. Un sacramento si dice “legato” se il suo frutto rimane vincolato, non usufruito, per mancanza di certe condizioni che ne impediscono l’efficacia. Un esempio estremo è il sacramento del matrimonio o dell’ordine sacro ricevuti in stato di peccato mortale. In queste condizioni, tali sacramenti non possono conferire nessuna grazia alle persone. Rimosso però l’ostacolo del peccato con una buona confessione, si dice che il sacramento rivive (reviviscit) grazie alla fedeltà e alla irrevocabilità del dono di Dio, senza bisogno di ripetere il rito sacramentale .
Quello del matrimonio o dell’ordine sacro è, dicevo, un caso estremo, ma sono possibili altri casi in cui il sacramento, pur non essendo del tutto legato, non è però neppure del tutto sciolto, cioè libero di operare i suoi effetti. Nel caso del battesimo, che cosa fa sì che il frutto del sacramento resti legato? I sacramenti non sono riti magici che agiscono meccanicamente, all’insaputa dell’uomo, o prescindendo da ogni sua collaborazione. La loro efficacia è frutto di una sinergia, o collaborazione, tra l’onnipotenza divina (in concreto: la grazia di Cristo o lo Spirito Santo) e la libertà umana.
Tutto ciò che nel sacramento dipende dalla grazia e dalla volontà di Cristo si chiama “l’opera operata” (opus operatum)”, cioè opera già realizzata, frutto oggettivo e immancabile del sacramento, quando è amministrato validamente; tutto ciò, invece, che dipende dalla libertà e dalle disposizioni del soggetto si chiama “l’opera da operare” (opus operantis), cioè l’opera da realizzare, l’apporto dell’uomo.
La parte di Dio o la grazia del battesimo è molteplice e ricchissima: figliolanza divina, remissione dei peccati, inabitazione dello Spirito Santo, virtù teologali di fede, speranza e carità infuse in germe nell’anima. L’apporto dell’uomo consiste essenzialmente nella fede! “Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo” (Mc 16,16). C’è un sincronismo perfetto tra grazia e libertà; avviene come quando i due poli, positivo e negativo, si toccano e fanno così sprigionare la luce.
Nel battesimo ricevuto da bambini (ma anche in quello ricevuto da adulti, se non è stato accompagnato da intima convinzione e partecipazione), questo sincronismo viene a mancare. Non si tratta di abbandonare la pratica del battesimo dei bambini. La Chiesa l’ha sempre giustamente praticata e difesa, vedendo nel battesimo un dono di Dio, prima ancora che il frutto di una decisione umana. Si tratta piuttosto di prendere atto di ciò che questa pratica comporta nella nuova situazione storica in cui viviamo.
Una volta, quando tutto l’ambiente era cristiano e impregnato di fede, questa fede poteva sbocciare, anche se gradualmente. L’atto di fede libero e personale veniva “supplito dalla Chiesa” ed espresso, come per interposta persona, dai genitori e dai padrini. Ora non è più così. L’ambiente in cui il bambino cresce non è tale da aiutarlo a far sbocciare in lui la fede; non lo è spesso la famiglia, non lo è ancora più spesso la scuola, e meno che meno la società e la cultura.
Ecco perché parlavo del battesimo come di un sacramento “legato”. Esso è come un ricchissimo pacco-dono, rimasto però sigillato, come certi regali natalizi dimenticati da qualche parte, prima ancora di essere stati aperti. Chi lo possiede ha i “titoli” per compiere tutti gli atti necessari alla vita cristiana e trarne anche un certo frutto, sebbene parziale, ma non possiede la pienezza della realtà. Nel linguaggio di sant’Agostino, possiede il sacramento (sacramentum), ma non – almeno pienamente – la realtà di esso (la res sacramenti).
Se noi siamo qui a meditare su questo, vuol dire che abbiamo creduto, che in noi la fede si è aggiunta al sacramento. Che cosa dunque ci manca ancora? Ci manca la fede-stupore, quello sgranare gli occhi e quell’ Oh! di meraviglia nell’aprire il regalo che è la ricompensa più gradita per chi ha fatto il dono. Il battesimo – dicevano i Padri greci – è “illuminazione” (photismos). Si è prodotta qualche volta in noi questa illuminazione?
Ci domandiamo: è possibile –anzi, è lecito – aspirare a questo diverso livello di fede in cui non solo si crede, ma si sperimenta e si “assapora” la verità creduta? La spiritualità cristiana è stata spesso accompagnata da una riserva, o addirittura (come nel caso dei Riformatori) da un rifiuto della dimensione esperienziale e mistica della vita cristiana, vista come cosa inferiore e contraria alla pura fede. Ma, nonostante gli abusi che pure ci sono stati, nella tradizione cristiana non è mai venuta meno la corrente sapienziale che pone l’apice della fede nell’”assaporare” la verità delle cose credute, nel “gusto” della verità, compreso il gusto amaro della verità della croce.
Nel linguaggio biblico, conoscere non significa avere l’idea di una cosa che però resta fuori e separata da me; significa entrare in relazione con essa, farne l’esperienza. (Si parla perfino di un conoscere la propria moglie, o conoscere la perdita dei figli!). L’evangelista Giovanni esclama: “Noi abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha per noi” (1 Gv 4, 16) e ancora: “Noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (Gv 6, 69). Perché “conosciuto e creduto”? Cosa aggiunge “conosciuto” a “creduto”? Aggiunge quella certezza interiore per cui la verità si impone allo spirito e si è costretti ad esclamare dentro di sé: “Sì, è vero, non c’è dubbio, è proprio così!” La verità creduta si fa realtà vissuta. “Fides non terminatur ad enuntiabile sed ad rem”, ha scritto san Tomaso d’Aquino: “La fede non termina all’enunciato, ma alla realtà” . Non si finisce mai di scoprire le conseguenze pratiche che derivano da questo principio.
Il ruolo della parola di Dio
Come rendere possibile questo salto di qualità dalla fede allo stupore di saperci figli di Dio? La prima risposta è: la parola di Dio! (C’è un secondo mezzo ugualmente essenziale – lo Spirito Santo – ma lo lasciamo per la prossima meditazione). San Gregorio Magno paragona la Parola di Dio alla pietra focaia, cioè alla pietra che serviva un tempo per produrre scintille e accendere il fuoco. Bisogna, diceva, fare con la Parola di Dio quello che si fa con la pietra focaia: percuoterla ripetutamente finché non si produce la scintilla. Ruminarla, ripetersela, anche a voce alta.
In un tempo di preghiera o di adorazione proviamo a ripetere dentro di noi, senza stancarci e con vivo desiderio: “Figlio di Dio! Sono figlio, sono figlia di Dio. Dio è mio padre!” O dire semplicemente: “Padre nostro che sei nei cieli”, ripetendolo a lungo, senza andare oltre. Qui è più che mai necessario ricordare le parole di Gesú: “Bussate e vi sarà aperto” (Mt 7,7). Presto o tardi, quando forse meno te l’aspetti, succederà: la realtà delle parole, fosse solo per un istante, ti esploderà dentro e ti basterà per il resto della vita. Ma anche se non dovesse succedere nulla di eclatante, sappi che hai ottenuto l’essenziale; il resto ti sarà dato in cielo. Infatti, “noi, fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” ( 1 Gv 3, 2).
Fratelli tutti!
Un risultato immediato di tutto ciò è che si prende coscienza della propria dignità. “Riconosci, o cristiano, la tua dignità –ci esorterà san Leone Magno nella notte di Natale – e, reso partecipe della natura divina, non volere tornare all’abiezione di un tempo” Quale dignità ci può essere superiore a quella di essere figlio di Dio? Si narra che la figlia di un re di Francia, orgogliosa e bisbetica, redarguiva continuamente una sua ancella e un giorno le gridò in faccia: “Non sai che io sono la figlia del tuo re?” Al che l’ancella rispose: “E tu non sai che io sono la figlia del tuo Dio?”
Un altro risultato – ancora più importante – è che si prende coscienza della dignità degli altri, anch’essi figli e figlie di Dio. Per noi cristiani, la fraternità umana ha la sua ragione ultima nel fatto che Dio è padre di tutti, che noi siamo tutti figli e figlie di Dio e perciò fratelli e sorelle tra di noi. Non ci può essere un vincolo più forte di questo, e, per noi cristiani, una ragione più urgente per promuovere la fraternità universale. San Cipriano diceva: “Non può avere Dio per padre chi non la Chiesa per madre” . Dobbiamo aggiungere: “Non può avere Dio per padre chi non ha il prossimo per fratello”.
Una cosa perciò cercheremo di non fare più. Non diremo, neppure tacitamente, a Dio Padre: “Scegli: o me, o il mio avversario; dichiara da che parte stai!”. Non si può imporre a un padre questa alternativa crudele di scegliere tra due figli, solo perché essi sono in lite tra di loro. Non tenteremo perciò Dio, chiedendogli di sposare la nostra causa contro il fratello.
Quando saremo in contrasto con qualcuno, prima ancora di far valere e discutere il nostro punto di vista (che pure è lecito e qualche volta doveroso), diremo a Dio: “Padre, salva quel mio fratello, salvaci tutti e due; non desidero che io abbia ragione e lui torto. Desidero che anche lui sia nella verità, o almeno nella buona fede”. Questa misericordia degli uni verso gli altri è indispensabile per vivere la vita dello Spirito e la vita comunitaria in tutte le sue forme. È indispensabile per la famiglia e per ogni comunità umana e religiosa, compresa la Curia Romana. Noi, dice S. Agostino, siamo vasi di argilla: ci facciamo del male solo toccandoci .
Abbiamo ricordato sopra le esclamazioni di santa Margherita da Cortona al sentirsi interiormente chiamare da Dio “figlia mia”: “Sono sua figlia, egli l’ha detto… Oceano di gioia! Figlia mia! l’ha detto il mio Dio! Figlia mia!” Potessimo una volta sperimentare qualcosa di simile, ascoltando quella stessa voce di Dio, non risuonante, come per lei, nella nostra mente (che si può ingannare!), ma scritta, nero su bianco, nella pagina della Bibbia che stiamo meditando: “Dunque, non sei più schiavo, ma figlio. E se figlio, anche erede!”
Lo Spirito Santo, vedremo a Dio piacendo la prossima volta, è pronto ad aiutarci in questa impresa.
1.Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, 6.
2.Giunta Bevegnati, Vita e miracoli della Beata Margherita da Cortona, II, 6 (Trad. ital. Vicenza 1978, p. 19 s.).
3.Cf. A. Michel, Reviviscence des sacrements, in DTC, XIII,2, Parigi 1937, coll. 2618-2628.
4.Summa theologiae, II-II, 1, 2, ad 2.
5.Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele, I,2,1.
6,Leone Magno, Discorso 1 sul Natale, 3.
7.Cipriano, De unitate Ecclesiae, 6.
8.Agostino, Discorsi, 69 (PL 38, 440) (lutea vasa sibi invicem angustias facientes).
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