Alle ore 9 di questa mattina, nella Cappella Redemptoris Mater, alla presenza del Santo Padre Francesco, il Predicatore della Casa Pontificia, P. Raniero Cantalamessa, O.F.M. Cap., ha tenuto la prima Predica di Avvento sul tema: “L’anima mia ha sete del Dio vivente” (Salmo 42, 2).
L’anima mia ha sete del Dio vivente
Santo Padre, Venerabili Padri, fratelli e sorelle, nella Chiesa siamo così incalzati da compiti da assolvere, problemi da affrontare, sfide a cui rispondere, che rischiamo di perdere di vista, o lasciare come sullo sfondo, il “porro unum necessarium” del Vangelo, e cioè il nostro rapporto personale con Dio. Oltre tutto, sappiamo per esperienza che un rapporto personale autentico con Dio è la prima condizione per affrontare tutte le situazioni e i problemi che si presentano, senza perdere la pace e la pazienza.
Ho pensato perciò di lasciare da parte, in queste prediche di Avvento, ogni riferimento a problemi di attualità. Cercheremo di fare quello che santa Angela da Foligno raccomandava ai suoi figli spirituali: “raccoglierci in unità e inabissare la nostra anima nell’infinito che è Dio”[1]. Fare un bagno mattutino di fede, prima di iniziare la giornata di lavoro.
Il tema di queste prediche di Avvento (e, se Dio lo vorrà, anche della Quaresima) sarà il versetto del Salmo: “L’anima mia ha sete del Dio vivente” (Sal 42, 2). Gli uomini del nostro tempo si appassionano a cercare segnali dell’esistenza di esseri viventi e intelligenti su altri pianeti. È una ricerca legittima e comprensibile anche se tanto incerta. Pochi però cercano e studiano segnali dell’Essere vivente che ha creato l’universo, che è entrato in esso, nella sua storia, e vive in esso. “In lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (Atti 17, 28) e non ce ne accorgiamo. Abbiamo il Vivente reale in mezzo a noi e lo trascuriamo per cercare esseri viventi ipotetici che, nel migliore dei casi, potrebbero fare ben poco per noi, certo non salvarci dalla morte.
Quante volte siamo costretti a dire a Dio, con sant’Agostino: “Tu eri con me, ma io non ero con te”[2]. Al contrario di noi, infatti, il Dio vivente ci cerca, non fa altro dalla creazione del mondo. Continua a dire: “Adamo, dove sei?” (Gen 3,9). Noi ci proponiamo di captare i segnali di questo Dio vivente, di rispondere al suo appello, di “bussare alla sua porta”, per entrare in un contatto nuovo, vivo, con lui.
Ci appoggiamo sulla parola di Gesù: “Cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto” (Mt 7,7). Quando si leggono queste parole, si pensa immediatamente che Gesù prometta di darci tutte le cose che gli chiediamo, e rimaniamo perplessi perché vediamo che questo raramente si realizza. Egli però intendeva dire soprattutto una cosa: “Cercatemi e mi troverete, bussate e vi aprirò”. Promette di dare se stesso, al di là delle cose spicciole che gli chiediamo, e questa promessa è sempre infallibilmente mantenuta. Chi lo cerca, lo trova; a chi bussa, lui apre e una volta trovato lui, tutto il resto passa in seconda linea.
L’anima che ha sete del Dio vivente lo troverà infallibilmente e con lui e in lui troverà tutto, come ci ricordano le parole di Santa Teresa d’Avila: “Nulla ti turbi, nulla ti spaventi; tutto passa, Dio non cambia; la pazienza ottiene tutto; chi possiede Dio non manca di nulla. Solo Dio basta”. Con questi sentimenti iniziamo il nostro cammino di ricerca del volto di Dio vivente.
Tornare alle cose!
La Bibbia è punteggiata di testi che parlano di Dio come del “vivente”. “Egli è il Dio vivente”, dice Geremia (Ger 10,10); “Io sono il vivente”, dice Dio stesso in Ezechiele (Ez 33,11). In uno dei salmi più belli del salterio, scritto durante l’esilio, l’orante esclama: “L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente” (Sal 42,2). E ancora: “Il mio cuore e la mia carne esultano nel Dio vivente” (Sal 84, 3). Pietro, a Cesarea di Filippo, proclama Gesú “Figlio del Dio vivente” (Mt 16, 16).
Si tratta evidentemente di una metafora tratta dall’esperienza umana. Israele si è rassegnato a usarla per distinguere il suo Dio dagli idoli delle genti che sono divinità “morte”. In contrasto con essi, il Dio della Bibbia è “un Dio che respira” e il suo respiro o soffio (ruah) è lo Spirito Santo.
Dopo il lungo predominio dell’idealismo e il trionfo dell’”idea”, in tempi a noi più vicini, anche il pensiero secolare ha avvertito il bisogno di un ritorno alla “realtà” e l’ha espresso nel grido programmatico: “Tornare alle cose!” [3]. Cioè: non fermarsi alle formulazioni date della realtà, alle teorie costruitevi sopra, a ciò che comunemente si pensa intorno ad essa, ma puntare direttamente alla realtà stessa che sta alla base di tutto; rimuovere i vari strati di terra riportata e scoprire la roccia sottostante.
Dobbiamo applicare questo programma anche all’ambito della fede. Della fede, infatti, san Tommaso d’Aquino ha scritto che “non termina alle enunciazioni, ma alle cose” [4]. Quando si tratta della “cosa” suprema nell’ambito della fede, cioè di Dio, “tornare alle cose”, significa tornare al Dio vivente; sfondare, per così dire, il terribile muro dell’idea che ci siamo fatti di lui e correre, come a braccia aperte, incontro a Dio in persona. Scoprire che Dio non è un’astrazione, ma una realtà; che tra le nostre idee di Dio e il Dio vivo c’è la stessa differenza che tra un cielo dipinto su un foglio di carta e il cielo vero.
Il programma: “Tornare alle cose!” ha avuto un’applicazione giustamente famosa: quella che ha portato alla scoperta che le cose…esistono. Vale la pena rileggere la pagina famosa di Sartre:
“Ero al giardino pubblico. La radice del castagno s’affondava nella terra, proprio sotto la mia panchina. Non mi ricordavo più che era una radice. Le parole erano scomparse, con esse, il significato delle cose, i modi del loro uso, i tenui segni di riconoscimento che gli uomini hanno tracciato sulla loro superficie. Ero seduto, un po’ chino, a testa bassa, solo, di fronte a quella massa nera e nodosa, del tutto brutta, che mi faceva paura. E poi ho avuto un lampo d’illuminazione. Ne ho avuto il fiato mozzo. Mai prima di questi ultimi tempi, avevo presentito ciò che vuol dire ‘esistere’. Ero come gli altri, come quelli che passeggiano in riva al mare nei loro abiti primaverili. Dicevo come loro: ‘Il mare è verde; quel punto bianco, lassù, è un gabbiano’, ma non sentivo che ciò esisteva, che il gabbiano era un gabbiano-esistente; di solito l’esistenza si nasconde. È lì attorno a noi, è noi, non si può dire due parole senza parlare di essa e, infine, non la si tocca…E poi, ecco: d’un tratto, era lì, chiaro come il giorno: l’esistenza s’era improvvisamente svelata”[5].
Il filosofo che ha fatto questa “scoperta” si dichiarava ateo, perciò non è andato oltre la costatazione che io esisto, che il mondo esiste, che le cose esistono. Noi però possiamo partire da questa esperienza e farne il trampolino di lancio per la scoperta di un altro Esistente, la scintilla che rende possibile un’altra illuminazione. Quello che è stato possibile con la radice di castagno, perché non dovrebbe infatti essere possibile con Dio? È forse Dio, per la mente dell’uomo, meno reale di quanto la radice di castagno lo sia per il suo occhio? I Padri non esitavano a mettere a servizio della fede le intuizioni di verità presenti nei filosofi pagani, anche di quelli la cui autorità veniva volentieri addotta contro i cristiani. Noi dobbiamo imitarli e fare lo stesso nel nostro tempo.
Cosa possiamo dunque ritenere della “illuminazione” di quel filosofo? Nessuna applicazione diretta, o di contenuto, ma solo una indiretta e di metodo. Letto con una certa disposizione d’animo favorita dalla grazia, quel racconto sembra fatto apposta per scuoterci dall’abitudine, per suscitare in noi dapprima il sospetto, poi la certezza che esiste una conoscenza di Dio che ancora ci è ignota. Che, forse, prima d’ora, neppure noi abbiamo mai intuito cosa vuole dire che Dio “esiste”, che egli è un Dio-esistente, o, come dice la Bibbia, un Dio-vivente. Che abbiamo dunque un compito davanti a noi, una scoperta da fare: scoprire che Dio “c’è”, tanto da averne, anche noi, per un istante, il fiato mozzo! Sarebbe l’avventura della vita.
Ci aiuta a capire di che si tratta l’esperienza di certi convertiti, ai quali l’esistenza di Dio si è rivelata improvvisamente, a un certo punto della vita, dopo averla tenacemente ignorata o negata.
Uno di essi è stato il giornalista francese Andrè Frossard, morto il 2 Febbraio del 1995. Così egli descrive la sua vita prima della conversione:
“Dio non esisteva. La sua immagine, le immagini in sostanza che evocano l’ esistenza sua o di quella che potrebbe esserne detta la discendenza storica: i santi, i profeti, gli eroi della Bibbia, non figuravano affatto in casa nostra. Nessuno ci parlava di lui. Eravamo degli atei perfetti, di quelli che non si pongono più interrogativi sul loro ateismo. Gli ultimi anticlericali che si scagliavano ancora contro la religione nelle riunioni pubbliche ci parevano patetici ed un po’ ridicoli, quali lo sarebbero degli storici che si impegnassero a confutare la favola di Cappuccetto Rosso”.
In una giornata d’estate, stanco di aspettare l’amico con cui aveva un appuntamento, il giovane Frossard entra nella chiesa vicina, osserva la sua architettura e guarda le persone che vi pregano. Ed ecco come egli narra ciò che accadde:
“Dapprima mi vengono suggerite queste parole: “Vita Spirituale”. Non dette, e neppure formate da me stesso: sentite come se fossero pronunciate accanto a me sottovoce da una persona che veda ciò che io non vedo ancora. L’ultima sillaba di questo preludio sussurrato raggiunge appena in me il filo della coscienza, che comincia la valanga a rovescio. […] Come descriverlo con queste povere parole? Un altro mondo d’uno splendore e d’ una densità che rimandano di colpo il nostro tra le ombre fragili dei sogni realizzabili. Questo mondo, è la realtà, la verità: la vedo dalla sponda oscura su cui sono ancora trattenuto. C’ è un ordine nell’ universo, ed alla sommità, al di là di questo velo di nebbia risplendente, l’ evidenza di Dio, l’evidenza fatta presenza e l’evidenza fatta persona di colui che un istante prima avrei negato […] La sua irruzione straripante, totale, s’ accompagna con una gioia che non è altro che l’ esultanza del salvato”
Uscito di chiesa, il suo amico, vedendo che qualcosa è accaduto, gli domanda: “Che ti succede? – “ Risponde: “Sono cattolico”, e, come se temessi di non essere stato sufficientemente esplicito, aggiunsi “apostolico e romano”.
L’espressione che nella nostra lingua meglio esprime questo avvenimento è: accorgerci di Dio. “Accorgersi” indica un improvviso aprirsi degli occhi, un soprassalto della coscienza, per cui cominciamo a vedere qualcosa che era lì anche prima, ma che non vedevamo.
Proviamo a rileggere, sull’onda dell’ “illuminazione” descritta da Sartre, l’episodio del roveto ardente. Ci servirà, tra l’altro, per costatare come anche il moderno pensiero “esistenziale” ci può aiutare a scoprire, nella Bibbia, qualcosa di nuovo, che il pensiero antico, tutto orientato in senso ontologico, pur con tutta la sua ricchezza, non era in grado di cogliere.
La pagina della Bibbia che narra del roveto ardente (Es 3, 1 ss.) è essa stessa un roveto ardente. Brucia, ma non si consuma. A distanza di millenni non ha perso nulla del suo potere di veicolare il senso del divino. Essa mostra, meglio di ogni discorso, cosa succede quando si incontra davvero il Dio vivente. “Mosè pensò: ‘Voglio avvicinarmi…’”. Ancora pensa e vuole. È padrone di sé; è lui che conduce (o crede di condurre) il gioco. Ma ecco che il divino irrompe con il suo essere e impone la sua legge. “Mosè, Mosè! Non avvicinarti. Io sono il Dio di tuo padre”. Tutto è improvvisamente cambiato. Mosè diventa di colpo docile, remissivo. “Eccomi!”, risponde e si vela il viso, come i Serafini si coprivano gli occhi con le ali (cf. Is 6, 2). Il ‘numinoso’ è nell’aria. Mosè entra nel mistero.
In questa atmosfera Dio rivela il suo nome: “Io sono colui che sono”. Trapiantata sul terreno culturale ellenistico, già con i Settanta, questa parola era stata interpretata come una definizione di ciò che Dio è, l’Essere assoluto, come un’affermazione della sua essenza più profonda. Ma una tale interpretazione, dicono oggi gli esegeti, è “del tutto estranea al modo di pensare dell’Antico Testamento”. La frase significa piuttosto: “Io sono colui che ci sono; o più semplicemente ancora: “Io ci sono (o Io ci sarò) per voi!”[6]. Si tratta di un’affermazione concreta, non astratta; si riferisce più all’esistenza di Dio che non alla sua essenza, più al suo “esserci”, che non a “che cosa è”. Non siamo lontani dall’ “Io vivo”, “Io sono il vivente”, che Dio pronuncia in altre parti della Bibbia.
Quel giorno dunque Mosè scoprì una cosa semplicissima, ma capace di mettere in moto e sostenere tutto il processo di liberazione che seguirà. Scoprì che il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe esiste, c’è, è una realtà presente e operante nella storia, uno su cui si può contare. Questo era, del resto, quello che Mosè aveva bisogno di sapere in quel momento, non un’astratta definizione di Dio.
C’è qualcosa che accomuna l’esperienza del filosofo davanti alla radice del castagno e quella di Mosè davanti al roveto ardente. Entrambi scoprono il mistero dell’essere: il primo, l’essere delle cose, il secondo l’Essere di Dio. Ma mentre scoprire che Dio esiste è fonte di coraggio e di gioia, scoprire solo che le cose esistono non produce, a detta di quello stesso filosofo, che “nausea”.
Dio, sentimento di una presenza
Cosa significa e come si definisce il Dio vivente? Per un momento ho coltivato il proposito di rispondere a questa domanda, tracciando un profilo del Dio vivente, a partire dalla Bibbia, ma poi ho visto che sarebbe stata una grande stoltezza. Voler descrivere il Dio vivente, tracciarne un profilo, sia pure fondandosi sulla Bibbia, è ricadere nel tentativo di ridurre il Dio vivente a idea del Dio vivente.
Quello che possiamo fare, anche nei confronti del Dio vivente, è oltrepassare “i tenui segni di riconoscimento che gli uomini hanno tracciato sulla sua superficie”, rompere i piccoli gusci delle nostre idee di Dio, o i “vasetti di alabastro” in cui lo teniamo racchiuso, in modo che il suo profumo si espanda e “riempia la casa”. Ci è maestro in questo sant’Agostino. Il santo ci ha lasciato una specie di metodo per elevarci con il cuore e la mente al Dio vivo e vero. Esso consiste nel ripetere a noi stessi, dopo ogni riflessione su Dio: “Ma Dio non è questo, ma Dio non è questo!”. Pensa alla terra, pensa al cielo, pensa agli angeli o a qualsiasi cosa o persona; pensa, infine, a quello che tu stesso pensi di Dio, e ogni volta ripeti: “Sì, ma Dio non è questo, Dio non è questo!”. “Cerca sopra di noi”, rispondono, una ad una, tutte le creature interrogate [7]. Dobbiamo credere in un Dio che è al di là del Dio in cui crediamo!
Il Dio vivente, in quanto vivente, lo si può intuire vagamente, averne una specie di sentore o pre-sentimento. Si può suscitarne il desiderio, la nostalgia. Di più no. Non si può racchiudere la vita in un’idea. Per questo si può avere di lui più facilmente il sentimento, o il sentore, che non l’idea, poiché l’idea circoscrive la persona, mentre il sentimento ne rivela la presenza, lasciandola nella sua interezza e indeterminazione. San Gregorio Nisseno parla della più alta forma di conoscenza di Dio come di un “sentimento di presenza” [8].
Il divino è una categoria assolutamente diversa da ogni altra, che non può essere definita, ma solo accennata; se ne può parlare solo per analogie e per contrapposti. Un’ immagine che nella Bibbia ci parla così di Dio è quella della roccia. Pochi titoli biblici sono capaci di creare in noi un sentimento così vivo di Dio -soprattutto di ciò che Dio è per noi- quanto questo del Dio-roccia. Cerchiamo anche noi di succhiare, come dice la Scrittura, “miele dalla roccia” (cf. Dt 32, 13).
Più che un semplice titolo, roccia appare, nella Bibbia, come una specie di nome personale di Dio, tanto da essere scritto, a volte, con la lettera maiuscola. “Egli è la Roccia, perfetta è l’opera sua” (Dt 32, 4); “Il Signore è una roccia eterna” (Is 26, 4). Ma perché questa immagine non ci incuta spavento e soggezione per la durezza e l’impenetrabilità che evoca, ecco che la Bibbia aggiunge subito un’altra verità: egli è la “nostra” roccia, la “mia” roccia. Cioè una roccia per noi, non contro di noi. “Il Signore è la mia roccia” (Sal 18,3), la “roccia della mia difesa” (Sal 31, 4), la “roccia della nostra salvezza” (Sal 95,1).
I primi traduttori della Bibbia, i Settanta, si sono spaventati davanti a un’immagine così materiale di Dio che sembrava abbassarlo e hanno sistematicamente sostituito il concreto “roccia” con astratti, quali “forza”, “rifugio”, “salvezza”. Ma giustamente tutte le traduzioni moderne hanno restituito a Dio il titolo originale di roccia.
Roccia non è un titolo astratto; non dice soltanto cos’è Dio, ma anche cosa dobbiamo essere noi. La roccia è fatta per essere scalata, per cercarvi rifugio, non solo per essere contemplata da lontano. La roccia attira, appassiona. Se Dio è roccia, l’uomo deve diventare un “rocciatore”. Gesù diceva: “Imparate dal padrone di casa”; “Guardate i pescatori”; san Giacomo continua dicendo: “Guardate gli agricoltori”. Noi possiamo aggiungere: “Guardate i rocciatori!”. Se cala la notte o viene una bufera, non commettono l’imprudenza di tentare di scendere, ma ancora di più si stringono alla roccia e aspettano che passi la bufera.
L’insistenza della Bibbia sul Dio-roccia ha come scopo quello di infondere nella creatura fiducia, scacciando dal suo cuore le paure. “Non temiamo se trema la terra , se crollano i monti nel fondo del mare”, dice un salmo; e il motivo che si adduce è: “Nostra roccaforte è il Dio di Giacobbe” (Sal 46, 3.8).
Dio c’è e tanto basta!
Il primo biografo di san Francesco d’Assisi, Tommaso da Celano, descrive un momento di buio e quasi di sconforto che il santo visse verso la fine della sua vita, a causa delle deviazioni che vedeva intorno a sé dal primitivo stile di vita dei suoi frati.
Essendo turbato –scrive – per i cattivi esempi, e avendo fatto ricorso un giorno, così amareggiato, alla preghiera, si sentì apostrofato a questo modo dal Signore: “Perché tu, omiciattolo, ti turbi? Forse io ti ho stabilito pastore del mio Ordine in modo tale che tu dimenticassi che io ne rimango il patrono principale? […] Non turbarti dunque, ma attendi alla tua salvezza perché se l’Ordine si riducesse anche a soli tre frati, rimarrà il mio aiuto sempre stabile “.[9]
Lo studioso francescano francese P. Eloi Leclerc, che meglio di tutti ha illustrato questa fase tormentata della vita di Francesco, dice che il Santo fu così rianimato dalle parole di Cristo che andava ripetendo tra sé una esclamazione: “Dieu est, et cela suffit”. Francesco, Dio c’è e tanto basta! Dio c’è e tanto basta! ” [10].
Impariamo a ripetere anche noi queste semplici parole quando, nella Chiesa o nella nostra vita, ci troviamo in situazioni simili a quelle di Francesco. Dio c’è e tanto basta!
[1] S. Angela da Foligno, Istruzioni III, Ed. Quaracchi 1985, p. 474.
[2] S. Agostino, Confessioni, X, 27.
[3] “Zu den Sachen selbst“: è il programma della Scuola fenomenologica di Husserl.
[4] S. Tommaso d’Aquino, S.Th. II-IIae, q.1,a. 2, 2.
[5] J.-P. Sartre, La nausea, Mondadori, Milano 1984, pp.193 s.
[6] Cf. G. von Rad, Theologie des Alten Testaments, I, Monaco 1966, p.194.
[7] S. Agostino, Commento al Salmo 85, 12 (CCL 39, p. 1136); cf. anche Confessioni, X, 6, 9.
[8] S. Gregorio Nisseno, In Cant. XI,5,2 (PG 44, 1001).
[9] Celano, Vita seconda CXVII, 158 (Fonti Francescane, nr. 742).
[10] Eloi Leclerc, Sagesse d’un Pauvre, Editions Franciscaines, Paris 1959, pp. 75-78.