Vegliate
Inizia un nuovo anno liturgico. L’anno liturgico è il ciclo di tempo nel quale la Chiesa ripercorre tutto il mistero di Cristo, dalla sua nascita al suo ritorno alla fine dei tempi. Dentro questo periodo ci sono periodi più brevi come le quattro settimane di Avvento che iniziamo oggi in preparazione al Natale.
Il Vangelo che leggeremo, in questo secondo anno del ciclo liturgico triennale, è quello di Marco. Secondo una tradizione, che trova numerose conferme negli scritti del Nuovo Testamento, Marco fu discepolo e “interprete” di Pietro, di cui mise per iscritto i ricordi e la predicazione. Il suo racconto si basa dunque su un testimone oculare di eccezionale importanza. Scrisse quasi certamente a Roma, dove Pietro fu attivo negli ultimi anni della sua vita. Il suo Vangelo fu il primo in ordine di tempo ad essere scritto, il primo libro di “catechismo” dei cristiani! Per la sua brevità e il carattere prevalentemente narrativo, il vangelo di Marco è lo strumento ideale per un primo approccio alla figura di Gesù.
Riascoltiamo qualche frase dell’odierno brano evangelico:
“In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: Vigilate, poiché non sapete quando il padrone di casa ritornerà: se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino, perché non giunga all’improvviso, trovandovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: Vegliate!”.
Questo modo di parlare di Gesù sottintende una visione ben precisa del mondo. La possiamo riassumere così: il tempo presente è come una lunga notte; la vita che vi conduciamo somiglia a un sonno; l’attività frenetica che in essa svolgiamo è, in realtà, un sognare. San Paolo esplicita questa visione quando scrive: “La notte è avanzata e il giorno è vicino” (Romani 13, 12), intendendo per “notte” questa vita e per “giorno” la vita futura.
Da sempre e in tutte le culture si è soliti associare l’idea del sonno a quella della morte (è comune parlare del “sonno della morte”); ma nella Bibbia essa è associata ancora più spesso a quella della vita. È la vita che è un sogno; la morte sarà piuttosto un risveglio, e, per molti, un brusco risveglio. Uno scrittore spagnolo del Seicento, Calderon de la Barca, ha scritto un famoso dramma intitolato appunto “La vita è un sogno” (Vida es sueño). La nostra, più che una “terra dei viventi”, si dovrebbe chiamare, diceva sant’Agostino, una “terra di dormienti”.
Del sogno, la nostra vita riflette alcune caratteristiche ben precise. La prima è la brevità. Il sogno avviene fuori del tempo. Fateci caso. Nel sogno le cose non durano come nella realtà. Situazioni che richiederebbero giorni e settimane, nel sogno avvengono in pochi minuti. A volte si fanno sogni il cui contenuto occuperebbe, nella realtà, giornate intere; vi destate, guardate l’orologio e scoprite che vi siete appisolati appena per una decina di minuti. È un’immagine della nostra vita: giunti alla vecchiaia, uno si guarda indietro e ha l’impressione che tutto non sia stato che un soffio.
Un’altra caratteristica è la irrealtà o vanità. Uno può sognare di essere a un banchetto e di mangiare e bere a sazietà; si sveglia e si ritrova con tutta la sua fame. Ecco che un povero, una notte, sogna di essere diventato ricco. Esulta nel sonno, si pavoneggia, disprezza perfino il proprio padre, facendo finta di non riconoscerlo. Ma si sveglia e si ritrova povero come era prima. Così avviene anche quando si esce dal sonno di questa vita. Uno è stato quaggiù ricco sfondato, ma ecco che muore e si viene a trovare esattamente nella posizione di quel povero che si sveglia dopo aver sognato di essere ricco. Cosa gli resta di tutte le sue ricchezze, se non le ha usate bene? Un pugno di mosche. Vanità.
C’è però una caratteristica del sogno che non si applica alla vita ed è l’assenza di responsabilità. Tu puoi aver ucciso o rubato nel sogno; ti svegli, non resta traccia di colpa; la tua fedina penale non è macchiata, non devi pagare alcuna pena. Non così nella vita, lo sappiamo bene. Quello che uno fa nella vita, lascia traccia, e quale traccia! È scritto infatti che “Dio renderà a ciascuno secondo le sue opere” (Romani 2, 6).
Sul piano fisico ci sono delle sostanze che “inducono” e conciliano il sonno; si chiamano i sonniferi e sono ben noti a una generazione, come la nostra, malata di insonnia. Anche sul piano morale, esiste un terribile sonnifero. Si chiama l’abitudine. Non parlo, naturalmente, delle buone abitudini che sono piuttosto virtù, ma delle abitudini cattive, o del fare le cose per abitudine, meccanicamente, senza alcuna convinzione e partecipazione interiore. È stato detto che l’abitudine è come un vampiro. Il vampiro – almeno stando a quello che si crede – si attacca alle persone che dormono e, mentre succhia loro il sangue, contemporaneamente inietta in esse un liquido soporifero che fa sperimentare ancora più dolce il dormire, sicché il malcapitato sprofonda sempre più nel sonno e il vampiro può succhiare sangue finché vuole. In certo senso, l’abitudine è peggiore del vampiro. Questo infatti non può addormentare la preda, ma si attacca a chi già dorme; quella, invece, prima addormenta le persone e poi succhia loro sangue, cioè energie, slancio, volontà, iniettando, anch’essa, una specie di liquore soporifero che fa trovare il sonno sempre più dolce. L’abitudine al vizio addormenta la coscienza, per cui uno non sente più neppure il rimorso, crede di star benone e non si accorge che sta morendo spiritualmente.
L’unica salvezza, quando questo “vampiro” ti si è attaccato addosso, è che qualcosa venga improvvisamente a destarti e scuoterti dal sonno. Questo è quello che si prefigge di fare con noi la parola di Dio con quei gridi di risveglio che ci fa ascoltare così spesso durante l’Avvento: “Vigilate!” “È ormai tempo di svegliarvi dal sonno!” (Romani 13, 11). “Svegliati tu che dormi, destati dai morti e Cristo ti illuminerà!” (Efesini 5, 14).
Ma che significa, in questo caso, vegliare? Gesù lo spiega, qui e in altri passi del Vangelo, mediante alcuni accostamenti: “Vegliate e state attenti!”, “Vegliate e state pronti!”, “Vegliate e pregate”.
Essere attenti significa essere “tesi”, o protesi, verso qualcosa. Noi dobbiamo essere come persone che prendono la mira, che fissano un bersaglio, una meta. Avete mai visto un cacciatore nel momento di prendere la mira? Quale attenzione, quale concentrazione! Ecco, così dovremmo essere noi. Non per abbattere un povero uccello, ma per non fallire il bersaglio di tutta la vita, che è l’eternità. Noi siamo infatti destinati all’eternità. Che cosa gioverebbe vivere bene e a lungo, se non ci fosse dato di vivere sempre?
Quanto allo stare pronti, Gesù lo spiega con l’immagine del portiere, o del maggiordomo di casa, pronto per aprire al padrone appena torna: “È come uno che è partito per un lungo viaggio e ha ordinato al portiere di vigilare”. I portinai e le portinaie passano per essere gente curiosa, sempre pronta a spiare, ascoltare, riferire… Forse è una calunnia nei confronti dei poveri portieri, in ogni caso, non è per questo che sono posti a modello, ma per quel loro stare sempre ad occhi aperti su chi va e chi viene, pronti a saltare giù dal letto, se sanno che può arrivare da un momento all’altro il padrone di casa.
La preghiera poi è il contenuto principale della vigilanza. Tra il chiasso delle voci che ci assalgono da tutte le parti e ci distraggono, vigilare significa, in certi momenti, imporre silenzio a tutto e a tutti, spegnere ogni “audio”, per mettersi alla presenza di Dio, ritrovare se stessi e riflettere sulla propria vita. Pregare è stare sulla soglia, da dove si può gettare uno sguardo sull’altro mondo, il mondo di Dio. È “passare da questo mondo al Padre”.
La vigilanza prende valore dal motivo per cui si veglia. Veglia anche il donnaiolo, diceva sant’Agostino, e veglia il ladro, ma non è certo buono il loro vegliare. Vegliano coloro che passano la notte in discoteca, ma spesso per stordirsi e non pensare. Ora il motivo evangelico della vigilanza è così formulato da Gesù: “State attenti, vegliate, perché non sapete quando sarà il momento preciso”.
Non serve consolarsi dicendo che nessuno sa quando sarà la fine e del mondo. C’è una venuta, un ritorno di Cristo, che ha luogo nella vita di ogni persona, al momento della sua morte. Il mondo passa, finisce, per me, nel momento in cui io passo dal mondo e finisco di vivere. Più “fine del mondo” di così! Ci sono tante fini del mondo quante sono le persone umane che lasciano questo mondo. Per milioni di persone, la fine del mondo è oggi.
Perché la liturgia ci accoglie con una parola così austera sulla soglia del nuovo anno? Dio forse ci minaccia, non ci vuole bene? No, è per amore, perché ha paura di perderci. La cosa peggiore che si può fare, davanti a un pericolo che incombe, è quello di chiudere gli occhi e non guardare. La notte che affondò il Titanic, ho letto che avvenne una cosa del genere. C’erano stati dei messaggi via radio, da parte di altre navi, che segnalavano un iceberg sulla rotta. Ma sul transatlantico era in atto una festa danzante; non si volle turbare i passeggeri. Così non si prese nessun provvedimento, rimandando ogni decisione al mattino dopo. Intanto nave e iceberg stavano marciando a grande velocità l’una verso l’altro, finché ci fu un tremendo urto nella notte e iniziò il grande naufragio. Viene da pensare a quello che dice Gesù in un’altra parte del Vangelo, parlando della generazione del diluvio: “Mangiavano e bevevano, prendevano moglie e marito… finché venne il diluvio e li inghiottì tutti” (Matteo 24, 38-39).
Terminiamo con una parola di Gesù che, anche in questa occasione, ci apre il cuore alla fiducia e alla speranza:
“Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà svegli! Si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli” (Luca 12, 37).
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