Un giorno, narra il brano evangelico odierno, qualcuno domandò a Gesù: “Qual è il più grande comandamento della legge?”. Egli rispose con le note parole:
“Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti”.
L’interrogante, a questo punto, poteva sentirsi soddisfatto; poteva bastare. Ma Gesù aggiunse come d’un solo fiato, che c’è un secondo comandamento, “simile al primo”, cioè inseparabile da esso, ed è:
“Amerai il prossimo tuo come te stesso”.
Noi sappiamo benissimo, in ogni minima circostanza, cosa significa amare noi stessi e cosa vorremmo che gli altri facessero per noi. Aggiungendo le parole “come te stesso!”, Gesù ci ha messi davanti uno specchio al quale non possiamo mentire; ci ha dato un metro infallibile per scoprire se amiamo o no il prossimo.
“Quello che tu vorresti che gli altri facessero a te,
questo è quello che devi fare agli altri” (Matteo 7,12).
Non dice, si badi bene: “Quello che l’altro fa a te, tu fallo a lui”. Questo sarebbe ancora la legge del taglione: “Occhio per occhio, dente per dente”. Dice: quello che tu vorresti che l’altro facesse a te, tu fallo a lui, che è ben diverso. Quante cose cambierebbero, nella famiglia e nella società, se si cercasse di praticare questa che viene chiamata la “regola d’oro” della morale! Per farlo, basta chiederci, in ogni situazione: come vorrei che lui si comportasse con me, se io fossi al posto suo ed egli al posto mio?
Gesù considerava l’amore del prossimo come il “suo comandamento”, quello in cui si riassume tutta la Legge. “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi” (Giovanni 15, 12). Molti identificano l’intero cristianesimo con il precetto dell’amore del prossimo, e non hanno del tutto torto.
Dobbiamo però adesso cercare di andare un po’ oltre la superficie delle cose. Quando si parla di amore del prossimo il pensiero va subito alle “opere” di carità, alle cose che bisogna fare per il prossimo: dargli da mangiare, da bere, visitarlo; insomma aiutare il prossimo. Ma questo è un effetto dell’amore, non è ancora l’amore. Prima della beneficenza viene la benevolenza; prima che fare il bene, viene il volere bene.
La carità, dice san Paolo deve essere “senza finzioni”, cioè sincera (alla lettera, “senza ipocrisia”) (Romani 12, 9). Si deve amare “di vero cuore” (1 Pietro 1,22). Come il vino per essere “sincero” deve essere spremuto dall’uva, se no è adulterato, così l’amore deve provenire dal cuore. Si può infatti fare la carità e l’elemosina per molti motivi che non hanno nulla a che vedere con l’amore: per farsi belli, per passare da benefattori, per guadagnarsi il paradiso, perfino per rimorso di coscienza. Molta carità che facciamo ai paesi del terzo mondo, non è dettata da amore, ma da rimorso. Ci rendiamo infatti conto della differenza scandalosa che esiste tra noi e loro e ci sentiamo in parte responsabili della loro miseria. Si può mancare di carità, anche nel “fare la carità”!
S. Paolo ci ha lasciato un meraviglioso elogio della carità:
“La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1 Corinzi 13, 4-7).
Nulla che in questo testo parli, di per sé, di opere esteriori di carità, le famose opere di misericordia; tutto si riferisce invece alle disposizioni interiori che bisogna nutrire nei confronti del prossimo. Arriva a dire che il più grande atto di carità esteriore -come sarebbe il distribuire tutte le proprie sostanze ai poveri- non gioverebbe a nulla, senza la carità, cioè se non è accompagnato da un autentico voler bene.
È chiaro che sarebbe un errore fatale contrapporre tra di loro l’amore del cuore e la carità dei fatti, o rifugiarsi nelle buone disposizioni interiori verso gli altri, per trovare in ciò una scusa alla propria mancanza di carità fattiva e concreta. Se tu incontri un povero affamato e intirizzito dal freddo, diceva san Giacomo, a che gli giova se gli dici: “Poveretto, va’, scaldati, mangia qualcosa!”, ma non gli dai nulla di ciò di cui ha bisogno?
“Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua,
ma coi fatti e nella verità” (1 Giovanni 3,18).
L’amore è davvero la soluzione universale. Sant’Agostino ha scritto: “Ama e fa’ ciò che vuoi”. Massima pericolosa! Quanti giovani sarebbero pronti oggi a sottoscriverla, intendendola a modo loro (“Se ci si ama, tutto è lecito…). Ma Agostino spiega bene come si deve intendere. È impossibile, dice, scoprire sul momento qual è la cosa giusta da fare in ogni circostanza: se tacere o parlare, se lasciar correre o correggere una persona. Allora ti viene data una breve regola che vale per tutti i casi: Ama e fa’ ciò che vuoi! Se taci, taci per amore, se parli parla per amore, se correggi correggi per amore. Preoccupati che nel tuo cuore ci sia vero amore per la persona, perché dopo, qualsiasi cosa farai, sarà quella giusta. Dall’amore infatti non può venire che bene. “L’amore non fa alcun male al prossimo” (Romani 13, 10).
Questa carità del cuore o interiore è la carità che tutti e sempre possiamo esercitare, è universale. Non è una carità che alcuni -i ricchi e i sani- possono solo dare e gli altri -i poveri e i malati- solo ricevere. Tutti possono farla e riceverla. Inoltre è concretissima. Si tratta di cominciare a guardare con occhio nuovo le situazioni e le persone con cui ci troviamo a vivere. Quale occhio? Ma è semplice: l’occhio con cui vorremmo che Dio guardasse noi! Occhio di scusa, di benevolenza, di comprensione, di perdono…Non dovrebbe essere neppure così difficile. Siamo così infelici, così soli di fronte al mistero della sofferenza, della malattia, della morte, che dovremmo trovare naturale impietosirci gli uni degli altri, intenerirci e solidarizzare tra noi in questa nostra breve esistenza.
Quando questo avviene, tutti i rapporti cambiano. Vedi cadere, come per miracolo, tutti i motivi di prevenzione e di ostilità che ti impedivano di amare una certa persona. Egli comincia ad apparirti per quello che è nella realtà: una povera creatura umana che soffre per le sue debolezze e i suoi limiti, come te, del resto, e come tutti. Lo vedi come “uno per il quale Cristo è morto” (Romani 14,15). Ti stupisci perfino di non averlo scoperto prima. Noi tendiamo a mettere una maschera sul volto delle persone, a imporre delle etichette, dei cliché, a schedarli. In questo momento è come se la maschera venisse a cadere e la persona ci apparisse per quello che è veramente.
Uno scrittore cristiano antico ci ha trasmesso questa notizia. L’evangelista Giovanni, giunto a tardissima età, si faceva portare alle riunioni dei cristiani e lì, invitato a dire qualche parola, ripeteva invariabilmente: “Figlioli, amiamoci gli uni gli altri perché l’amore è da Dio!”. A forza di sentirlo parlare così, alcuni un giorno gli dissero: “Ma Padre, tu sei stato con Gesù e sai tante cose di lui; come mai ci ripeti sempre la stessa cosa? E Giovanni rispondeva: “Perché è il precetto del Signore e se lo mettiamo in pratica, abbiamo messo in pratica tutto il suo vangelo”.
Tutti oggi sogniamo un mondo riconciliato e in pace, in cui a ogni persona viene riconosciuta la sua dignità e il suo posto nella vita. È quello che tutti desideriamo e aspettiamo. Ma questo mondo non si realizzerà su scala universale, se prima se non si realizza nel cuore delle persone. È inutile che io lo cerchi fuori di me, se prima non cerco di instaurarlo dentro di me e dentro la mia famiglia.
Anch’io perciò, come il vecchio evangelista Giovanni, al termine di questa riflessione sulla carità vi ripeto: “Figlioli, fratelli, amiamoci gli altri, perché l’amore è da Dio e se mettiamo in pratica questo precetto abbiamo messo in pratica tutto il vangelo”.
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Fonte della fotografia: https://www.incamm.com/2019/12/padre-raniero-cantalamessa-prima.html