p. Giovanni Nicoli – Commento al Vangelo del 8 Luglio 2020

Gesù chiama a sé i suoi discepoli e li invia. Li chiama per nome e nel nome dona loro l’invio. La vocazione infatti si realizza sempre e comunque nell’invio.

La vocazione corrisponde al proprio nome, alla propria storia. La vocazione non è qualcosa che si aggiunge alla nostra umanità; la vocazione è l’esaltazione, il portare a compimento la nostra umanità nella missione fino alla realizzazione totale nella resurrezione.

La vocazione è qualcosa di personale da un lato ed è allo stesso tempo elemento comunitario. Noi siamo parte di un corpo e il nostro corpo assume completezza perché inserito in un altro corpo e in relazione con un corpo più grande.

La comunità è il punto di partenza ed è il punto di arrivo, non vi è alcun dubbio. Il dubbio è se siamo ancora capaci di comunità, di vederci in relazione. A me pare che noi accettiamo di essere in relazione quando siamo obbligati, quando non se ne può fare a meno, quando dobbiamo assicurarci di potere competere con chi è più grande di noi. Quando dobbiamo scegliere di essere appartenenza, di essere di qualcuno, di essere con qualcuno, di vivere grazie e con qualcuno, la cosa sembra diventi impossibile. Non riusciamo a scorgere la bellezza del sentirci corpo. Assolutizziamo quello che noi siamo e che siamo chiamati ad essere non vedendo oltre il nostro naso. Assolutizzando noi stessi noi uccidiamo il corpo e uccidiamo ogni possibilità di vita in relazione. Preferiamo il nostro essere individui che non ci soddisfa e non ci può realizzare, perdendo ogni capacità e possibilità di essere persona, individuo in relazione col prossimo e col creato.

Questo isolazionismo diventa distruttivo per noi e per la creazione tutta. Pensiamo di potere stare bene se siamo soli ma in realtà ci tarpiamo le ali. Non riusciamo più a scorgere la bellezza del noi e, di conseguenza, non ne vediamo né l’utilità né la possibilità di realizzazione.

Mission impossible sembra essere chiamata a realizzare il nostro nome in comunione con gli altri e con Dio. Il mistero della Trinità, della vita Trinitaria donata a noi, sembra cosa lontana e non umana, non fatta come dono a noi.

Se questo è vero, come lo è, ci possiamo immaginare come è possibile la missione. La missione diventa una semplice ricerca di realizzazione di se stessi, non del noi comunità. La missione anziché itineranza diventa un girovagare a vuoto: turisti ma non pellegrini. La mobilità costretta dal mercato del lavoro diventa una ricerca di fuga dalle nostre radici con la perdita di alimento e di stabilità.

L’annuncio della Parola diventa chiacchiera per portare le nostre convinzioni e le nostre teorie, cercando di imporre a popoli interi convinzioni che nulla hanno a che fare con l’annuncio della Buona Notizia. Noi globalizziamo il mercato e l’idea di mondo che abbiamo noi; globalizziamo la proprietà privata, la finanza, la ragione del più forte e del più ricco contro il povero, non globalizziamo per nulla la Buona Notizia del vangelo. Non globalizziamo la condivisione ma l’accumulo.

Il servizio ai poveri diventa un alibi di carità per sentirci bravi e buoni e per potere ottenere gratitudine dai grandi e non dovere donare con gratuità.

Così la gratuità e la povertà diventano bestie rare, cose da frati e suore, e forse neanche più per loro, figuriamoci se è cosa per i cristiani. Al massimo è cosa per dei miseri derubati da tutto, ai quali tutto è stato distrutto con il pacco dono dei nostri bombardamenti.

Senza questo la chiamata non è tale perché rimane cosa mia e non diventa cosa nostra. Senza questo il nostro non ha spazio perché il mio e il tuo fanno la parte del leone quando si deve trattare del noi.


AUTORE: p. Giovanni Nicoli 
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