Oggi è la solennità della santissima Trinità. Il vangelo che ci viene proposto può lasciarci un po’ perplessi perché la Trinità non viene nominata, manca lo Spirito santo che non viene nominato. Tuttavia lo possiamo considerare un testo trinitario perché nel Nuovo Testamento dove due persone sono poste sul medesimo livello, come ad esempio qui il Padre e il Figlio, si entra nella prospettiva trinitaria.
L’elemento che salta subito all’occhio, di questo brano evangelico, è il fatto che Dio si presenta come uno scervellato. È uno senza alcun ritegno e senza alcun senso pratico. Il nostro Dio è matto e non ragiona. Egli infatti è talmente innamorato dell’uomo da perdere la testa. Il nostro Dio è peggio di una donna: pensa con il cuore, pensa con la pancia, pensa con l’utero. È talmente materno da perdere ogni Trebisonda di fronte a questo uomo. Perché non si può dare il proprio Figlio in pasto all’uomo per amore dell’uomo: la sua scelta è irragionevole. Come irragionevole risulta la scelta di fare Incarnare il Figlio e di farlo passare attraverso la Passione e Morte.
Non poteva Dio intervenire diversamente? Come nei confronti di Caino e di Abele, perché Dio non interviene? Perché non previene il delitto?
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Ma Dio vuole la morte? No, Dio non vuole la morte ma la vita, ma non può intervenire, sarebbe un determinismo spaventoso. Dio avendo creato l’essere umano lo vuole libero e gli ha dato la possibilità di creare, di darsi forma. Se Dio intervenisse per prevenire il male non solo priverebbe la sua creatura del massimo bene della libertà, ma implicitamente farebbe il volere di Satana che lo costringerebbe con ogni tentazione, e quindi con la sua iniziativa, ad intervenire. Un Dio che intervenisse sarebbe simile al Grande Inquisitore dei Fratelli Karamazov. Un Dio simile non avrebbe vinto, nel Figlio, le tentazioni del potere, del possedere e dell’apparire, come sono state vinte nelle tentazioni evangeliche dopo che il Cristo era stato nel deserto per 40 giorni.
La carità della Trinità risiede nella fonte che è il Padre. Egli ama la sua creatura in modo assolutamente eccessivo, dicono i Padri della Chiesa. Ed è questa carità che non esita a donare il Figlio unigenito. Gesù diventa l’incarnazione della infinita solidarietà del Padre nei confronti dell’uomo, una solidarietà totale che prende su di sé tutte le colpe e i casini degli uomini. Si sacrifica lui per tutti noi.
Chiunque crede in questo Figlio ha la vita eterna: questo è lo scopo per cui Gesù è venuto nel mondo. Chi crede non è chiamato alla rovina eterna ma alla vita eterna. È il Pastore Buono che ha promesso di dare la Vita con abbondanza. La Vita eterna è “Che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che tu hai inviato, Gesù Cristo” (Gv 17, 3). Questa è una conoscenza di amore, che si chiama fede accettata come Dono dello Spirito, fede gratuita, non meritabile dall’uomo.
Questa è la cultura di vita del nostro Salvatore che non può accordarsi con la cultura di morte di cui la nostra cultura è figlia. L’Amore di Dio rispetta talmente l’uomo da sacrificare l’Unigenito per salvare tutti gli altri, tutti meritevoli per propria colpa della rovina eterna, la morte eterna, la lontananza definitiva da Dio che porta all’annullamento dell’essere.
Qui nasce la vera speranza, quella che ci porta ad aprire il cuore a Dio perché lui possa riversare dentro di noi il dono della fede. Questa è giustizia che ci rende giusti, non la nostra bravura. Giustizia che ci fa vivere dei doni della sua Grazia e ci porta a vivere al di sopra della legge, di ogni legge, pur rispettandola e non disprezzandola.
Il rifiuto di Gesù porta alla morte. Ma il Signore Onnipotente non farà mai nulla per costringere la sua creatura ad una adesione forzata, semplicemente continuerà ad amarla fino alla fine.
L’amore infinito trinitario pone davanti a noi la scelta fra il bene e il male (Deut 11,26). “Considera tu che io oggi pongo davanti a te la vita e il bene, e al contrario la morte ed il male, affinché tu ami il Signore Dio tuo e proceda nelle sue vie” (Deut 30, 15-16).
La vita umana è un rischio, non un azzardo o una scommessa. È scelta e noi non siamo chiamati a tentare ma ad entrare in pieno in questa vita.
È lo Spirito che è amore, che è capacità di credere riversata in noi, che è vita donata, che è giudizio amorevole di Dio, che è salvezza per tutti gli uomini che ci fa entrare nella dinamica di vita della Trinità.
La Trinità – Padre, Figlio e Spirito Santo –ci testimonia come la divinità sia relazione. Sia comunione che stringe Padre, Figlio e Spirito santo, la stessa comunione che lui stringe con noi. La Trinità è movimento d’Amore: Dio è uscito creando, il Figlio è uscito facendosi uomo, lo Spirito è uscito riempiendo la terra. È l’amore che muove la vita. Possiamo cogliere l’invito ad essere ciò che è, come fondo ultimo della realtà, l’invito continuo ad essere relazionalità.
Dio non è un oggetto a misura della nostra mente. Noi siamo spesso concretamente invitati a personalizzare il divino e crediamo, non in teoria ma in pratica, che Lui sia un mio tu fatto a mia immagine e somiglianza. Proprio perché lo crediamo fatto a nostra immagine e somiglianza, in lui noi poniamo fiducia e sicurezza: non perché dinamica di relazione quanto invece perché “mio” oggetto, mio idolo che uso a mia immagine e somiglianza.
Per noi è difficile rimanere in silenzio di fronte al Mistero. Come è difficile riconoscere che questo mistero costituisca la nostra ultima identità. Questo, reso cosciente, è un invito non ad un’auto accusa per noi. In realtà si tratta di invito a percorrere il sentiero che va dalla credenza alla comprensione esperienziale di ciò che siamo.
La Trinità diventa luogo, diventa vita, dove ciò che siamo, nella nostra profonda verità, è relazione.
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