“Ti scongiuro, in nome di Dio, non tormentarmi”. In nome di Dio, dice l’indemoniato, non tormentarmi. Sì perché l’indemoniato non è uno che non crede, anzi, riconosce che Gesù è il Figlio di Dio. In nome di Dio, lo scongiura di non tormentarlo.
Uno spirito immondo che gira tra i sepolcri, che grida fra le tombe e mette in atto un autolesionismo dove l’indemoniato stesso si percuote con delle pietre. E non vuole lasciare quell’uomo.
Mi pare di cogliere, nella figura di questo indemoniato, le nostre tante abitudini di ogni giorno che sanno di morte. Abitudini che non danno vita ma delle quali non sappiamo farne a meno. Abitudini che in sé magari non stravolgono la nostra vita, ma che, giorno dopo giorno, passo dopo passo, provocano delle piccole necrosi che un po’ alla volta prendono piede fino a diventare cancrena, fino a diventare lebbra, fino a diventare AIDS, fino ad essere Covid. E ci tolgono la vita.
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Sono quelle abitudini che normalmente trattiamo con sufficienza, ma dietro alle quali c’è un atteggiamento che vita non dà. Sono quelle abitudini, e sono legione, sono migliaia, per le quali noi magari litighiamo e riconosciamo che litighiamo per delle cose che sono banali, ma che forse, alla verifica dei fatti, banali non sono. Sono quelle abitudini a cui facciamo poco caso, ma che giorno dopo giorno ci portano a frequentare più i sepolcri che i luoghi di risurrezione.
Sono mefistofeliche queste abitudini perché non ci portano a rinnegare Dio, anzi ce lo fanno riconoscere. Allo stesso tempo lo tengono a giusta distanza. Sono abitudini che ci permettono di vivere la nostra fede senza mai farla entrare veramente nella vita, “perché la religione è una cosa, gli affari sono un’altra faccenda”. Queste abitudini, tante e piccole, avvelenano la nostra esistenza, paralizzano la nostra capacità di giocarci nella vita, ci portano ad essere necrofili, a non credere più alla risurrezione. Quando il Risorto si avvicina noi lo riconosciamo: allo stesso tempo, lo scongiuriamo di non tormentarci.
Sembra una cosa strana, ma noi abbiamo paura di essere guariti, di essere sanati. Le nostre abitudini, pur mortali, ci sono più care che non la promessa di risorgere e la vicinanza del Risorto. Non vogliamo avere fastidi. Ma sì, sono un po’ morto, però me la cavo e mi accontento. Mi accontento di gridare fra le tombe e di vivere fra i sepolcri, lamentandomi del mondo intero, perché il problema è sempre l’altro.
Abbiamo bisogno di dare un nome a questo essere indemoniati. Come ti chiami, chiede Gesù, al demonio che non vuole lasciare quell’uomo. Legione è il mio nome. Quando il demonio viene chiamato per nome non ha più potere, deve lasciare quell’uomo, magari abitando una mandria di porci, perdendo potere. Il potere che perdono le nostre abitudini quando gli diamo il nome, quando non le lasciamo nel vago, quando le riconosciamo come tali e riusciamo a vedere la necrosi che portano con sé. “Non tormentarmi” diventa allora “ti prego guariscimi”. Dare il nome significa smascherare e avere di nuovo un potere di libertà sulla nostra e altrui vita.
A questo punto la paura sembra avere il sopravvento. Quando coloro che erano intimoriti dalla presenza dell’indemoniato, che nessuno riusciva più a domare, lo vedono sano seduto accanto a Gesù ne hanno “paura”. Non sanno riconoscere la bellezza della risurrezione, anzi ne hanno paura. Paura prima, paura poi. È mai possibile che la nostra vita, a causa della nostra poca libertà nel vivere la vita, debba essere comandata solo dalla paura? Paura della morte e paura della vita; paura dell’indemoniato e paura del risanato; paura delle proprie abitudini e paura di essere liberati da insane abitudini che avvelenano il nostro quotidiano.
C’è un uomo risorto e risanato, e gli chiedono di andarsene. Gesù se ne va donando una missione al risanato, al risorto: “Va’, annuncia ciò che il Signore ti ha fatto e la misericordia che ha avuto per te”.
AUTORE: p. Giovanni Nicoli FONTE SITO WEB CANALE YOUTUBE FACEBOOKINSTAGRAM