La Sacra famiglia ha in seno il Figlio primogenito di Dio che per l’antico testamento era il popolo di Israele. Quel popolo che Dio era andato a prendere in Egitto.
Quel popolo che aveva vissuto una storia di schiavitù e di liberazione e grazie a Mosè, l’unico salvato di tutti i primogeniti che il Faraone aveva condannato a morte: il Faraone per indebolire il popolo di Israele aveva dato ordine che tutti i figli maschi fossero buttati nel Nilo. Gesù è l’unico salvato alla strage degli Innocenti comandata da Erode.
Gesù diventa straniero come Mosè per non essere ucciso. Gesù rientra nella terra promessa quando Giuseppe apprende in sogno che Erode era morto, come Mosè era rientrato in Egitto dopo la morte del Faraone che voleva la sua morte.
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Con la Sacra Famiglia, portatrice del Figlio di Dio, ci imbattiamo nell’inizio del nuovo popolo eletto: con loro sta iniziando un nuovo esodo.
Gesù è il liberatore, è il conduttore del nuovo popolo. Gesù entra in scena nell’incarnarsi in un bambino fragile e indifeso. Sappiamo che le forze del male lo sopraffaranno, ma non l’avranno vinta perché la morte che ha ucciso l’autore della vita non ha più potere su di lui che è risuscitato. Sarà Gesù il vincitore, come lo era stato ai tempi Mosè.
Inizia il nuovo esodo, inizia il nuovo popolo dalla radice del popolo antico, dalla radice di Iesse. Un nuovo inizio che fa pensare ai tanti bimbi morti per violenza: perché solo Mosè, perché solo Gesù si sono salvati in mezzo a tanti? È chiaro che non vi è limite alla cattiveria umana, come è altrettanto chiaro che questi salvati dalle acque o dalle mani della soldataglia di Erode diventano strumenti di salvezza per tanti altri, se parliamo di Mosè, per tutti, se parliamo di Gesù.
La santa famiglia non è una famiglia chiusa, è una famiglia di profughi che fuggono dalla violenza e vengono accolti in un paese straniero. Come non pensare ai tanti che lasciano le loro famiglie o le tante famiglie che fuggono dalla violenza della guerra e della fame, ma non vengono accolti dai nostri paesi ricchi? Noi, paesi occidentali che abbiamo derubato mezzo mondo nei modi più nefasti, devastando interi continenti e uccidendo intere popolazioni per impadronirci di ciò che era loro, abbiamo paura di essere derubati di ciò che abbiamo rubato. Noi ladri sospettiamo che tutti siano ladri: chi ha il sospetto ha il difetto, dice un vecchio adagio. Non riusciamo più a vedere la fame dell’altro e il terrore che l’altro vive nel dovere tornare dove subirà altra violenza e fame: siamo solo preoccupati del nostro orto e della sicurezza di ciò che abbiamo messo via e di ciò che abbiamo costruito.
La famiglia di Nazareth vive nella paura e nel terrore di essere raggiunti dalla longa manus dei potenti che hanno ai loro ordini soldati ubbidienti ma non per questo meno assassini. Gente abituata ad obbedire ad ogni ordine, gente abituata alla violenza: cosa vuoi che facciano di diverso? Obbediranno comunque con violenza contro chiunque, soprattutto dove saranno sicuri di non incontrare resistenza: tra le famiglie, i civili, le donne e i bambini.
Siamo tutti un po’ profughi e ci troviamo ad andare a Nazareth quando il nostro paese sarebbe Betlemme. Betlemme è casa nostra ma non ci possiamo rimanere, dobbiamo fuggire e dopo essere fuggiti non vi possiamo ritornare.
Siamo tutti un po’ profughi: profughi perché non riusciamo a rimanere con noi stessi e a vivere dentro. Siamo un po’ tutti profughi perché costretti a vivere fuori, a vivere per l’apparenza: non si può vivere la grandezza dell’interiorità perché non appare, non è visibile e per gente che vive in una società dove la visibilità politica e religiosa, commerciale e lavorativa, sono il grande idolo che ci muove.
Siamo tutti profughi dentro e fuori, eppure chi si prende cura di questo essere profughi? Al massimo lo si può vedere come un problema, non come una realtà umana. Siamo tutti profughi e non riusciamo a ritrovare noi stessi. Le nostre famiglie sono sbandate. Siamo pieni di ricchi che impoveriscono i nostri paesi per salvaguardare le loro immense ricchezze accumulate.
Oggi è la Festa della Sacra Famiglia, ma cosa è una famiglia oggi? Quando questa non ha una casa e quando molti che hanno una casa non riescono più a vivere insieme. Cosa è una famiglia quando non ha nulla sulla tavola da condividere e quando molti che hanno le tavole invase di ogni ben di Dio non riescono più a mangiare insieme. Cosa è una famiglia quando in nome della libertà i figli sono rubati dalla droga e dallo sballo, quando la propria casa è rasa al suolo da un razzo intelligente, quando i propri campi non possono più produrre?
Cosa è una famiglia quando vede i propri figli morire di fame? Quando una nazione vede i propri figli fuggire all’estero o morire di AIDS lasciando solo i vecchi e i bambini?
Cosa è una famiglia che non può più ritornare al suo paese o per motivi economici o per motivi politici o per motivi di religione?
C’è bisogno di spazio vitale, c’è bisogno di accoglienza, c’è bisogno di una tavola dove potere condividere un pezzo di pane, c’è bisogno di speranza e di futuro.
Non c’è più bisogno di dare la colpa, c’è bisogno di rimboccarsi le maniche per risolvere i problemi, non per stabilirne le responsabilità/accuse.
Siamo tutti profughi, non possiamo tornare a Betlemme, abbiamo il coraggio di andare a Nazareth e di iniziare una nuova vita laddove è possibile. Apriamo i nostri occhi, cogliamo la realtà vera delle cose e agiamo di conseguenza.
Una piccola soluzione? Dacci oggi il nostro pane quotidiano! Non il mio. Perché quando il pane è nostro ce ne è per tutti e nasce condivisione, comunicazione e giustizia. Quando il pane è mio: non basta mai a nessuno. Né a chi accumula, che non è mai sazio, né a chi non accumula perché condannato ad una eterna fame.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano: questa è fiducia nell’uomo!
AUTORE: p. Giovanni Nicoli
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