Dopo i capi dei sacerdoti, i farisei e gli erodiani, si affacciano alla finestra della disputa i sadducei. Erano grossi proprietari terrieri appartenenti in gran parte all’aristocrazia sacerdotale più conservatrice. Erano un gruppo in opposizione ai farisei. Accettavano come normativi solo i primi cinque libri della Bibbia. Di conseguenza non credevano alla risurrezione dei morti che nella Bibbia appare affermata solo a partire dai profeti.
Il punto centrale della disputa è la visione di vita che i sadducei avevano in contraddizione con quella che aveva Gesù. I sadducei erano fermi alla legge del levirato che metteva al centro della vita la discendenza che un uomo acquistava grazie ai figli. Per Gesù il centro della vita non sta nella potenza, tanto meno nella potenza della discendenza, centro della vita per Gesù è la vita stessa.
Quale discendenza aveva poi avuto Abramo, il benedetto per fede, per credere al Dio dei vivi? Ha avuto un figlio unico quando già era vecchio. Eppure aveva creduto fino alla fine all’adempimento della promessa di vita che Dio aveva fatto a lui.
La storiella raccontata dai sadducei ha lo scopo di mostrare che la fede nella risurrezione conduce a conseguenze assurde. La risposta di Gesù non mette al centro della vita la legge del levirato ma la supremazia del Dio della vita su ogni angolo della terra e dell’esistenza. La vita terrestre e la vita futura è essenzialmente diversa, lo vediamo fin da ora. Vivere convinti che esista solo ciò che vediamo è vivere con gli occhi della mente e del cuore: chiusi al futuro, chiusi alla vita, chiusi ad ogni speranza e cambiamento, chiusi al mistero.
La questione centrale è dunque la questione della risurrezione. Dio è il Dio dei viventi, è il Dio di una vita senza fine. Se Dio è amore, e lo è, non sarebbe più amore se il suo amore avesse fine: sarebbe un Dio morto, un Dio dei morti. Se Dio è amore allora il suo amore infinito non può che concretarsi nella vita eterna, nella vita senza fine. Forte come l’amore è la morte, ci dice il Cantico dei Cantici. È proprio questo in questione. La morte non è la fine di tutto ma l’apice dell’amore perché apre alla vita nuova.
Per il discepolo, la cui vita è Cristo, la stessa morte, ci dice Paolo (Fil 2, 21), diventa un guadagno. Mediante la morte infatti saremo sempre con Cristo e abiteremo presso di lui. Questo abitare con Cristo ed essere con Lui, tanto che non sono più io che vivo ma è Cristo che vive in me (Gal 2,20), è vita fin da ora. La morte non è questione solo finale, la morte è questione quotidiana come è questione quotidiana la risurrezione.
Continuamente siamo chiamati a morire non solo perché invecchiamo e le forze vengono meno, ma anche e soprattutto perché la morte a ciò che nella vita è male e dunque mortifero, è questione di tutti i giorni. Come è questione di tutti i giorni la chiamata a risorgere a vita nuova, a vita più piena.
Gesù dice che Lui è la risurrezione e la vita. Chi crede in Lui e osserva la sua Parola, vive già in Lui ed è già nel mondo dei risorti. Il mistero sul mondo futuro, aperto dalla risurrezione, rimane aperto. Ma rimane aperto perché la risurrezione si opera già su questa terra nella vita del discepolo che si pone alla sequela del Maestro. Non viviamo per conquistarci il paradiso, viviamo il paradiso in terra, anche se spesso riusciamo a ridurlo ad inferno, per vivere di conseguenza il paradiso nel domani.
La risurrezione è il centro della rivelazione di Dio Padre a noi. Senza di essa tutto sarebbe vano. Se non crediamo nella risurrezione tutto ciò che viviamo come cristiani, dogmi e sacramenti compresi, sarebbe cosa vana, sarebbe fede vana, ci dice Paolo (1 Cor 15, 14). A questo noi crediamo, grazie a questo noi viviamo. La risurrezione per noi è motivo di ripartenza ogni giorno, perché ogni giorno siamo chiamati a risorgere.
AUTORE: p. Giovanni Nicoli
FONTE: Scuola Apostolica
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