La vita di una persona è una domanda dietro l’altra che accompagna la ricerca. Tutta la vita è una domanda, spesse volte una domanda implicita, ma sempre una domanda. Una domanda che tocca l’esistere delle cose, il senso dell’amore, cosa è mai l’amicizia.
Dare casa alle domande che sono dentro di noi, vale a dire ascoltarle e oggettivarle, è via di umanizzazione e di maturazione. Una delle vie di san Tommaso è una via costellata di domande la prima delle quali parte da noi e l’ultima delle quali, di domanda in domanda, non può che arrivare a Dio. La domanda è segno di curiosità e di voglia di cogliere la vita. Dalla domanda più semplice che un bimbo fa con gli occhi girandoli a destra e a manca per cercare di cogliere ciò che avviene, alla sua esplorazione orale del mondo, ai versetti con cui condisce il clima di una casa; alla domanda più complicata di un teologo, o un filosofo, o uno scienziato.
Perché? Sembra la base e la radice di tante costruzioni e di tanti alberi che portano frutto. La domanda dice anche capacità di chiedere riconoscendo il nostro bisogno implicito nella domanda stessa. Domandare significa dichiarare la propria incapacità a cavarsela da solo e la propria necessità. La domanda è un grande trasmettitore di relazione tanto che il non sapere domandare sembra essere indizio di seria difficoltà con se stessi, una difficoltà di rapporti che dovrebbe funzionare ma che sono bloccati.
Una domanda può anche celare qualcosa di più vero, di più grande e di più profondo. Dipende dalla capacità dell’interlocutore di cogliere quanto avviene e quanto si muove di vita e di comprendere ciò che veramente ci sta sotto quella stessa domanda.
Una domanda può anche manifestare imbarazzo quando si manifesta come interrogatorio e come volontà di possedere l’altro. Come ti chiami? Una domanda semplice ma che ti dà un potere enorme: quando sai il nome dell’altro se non lo chiami non dico con amore ma almeno con simpatia, ti dà il potere enorme di interpellarlo e di farlo girare verso di te quando pronunci il suo nome, ottenendo attenzione e obbligandolo ad una risposta.
Giungiamo alla domanda fatta dai capi dei sacerdoti, degli scribi e dei farisei: chi ti dà l’autorità per fare queste cose? Domanda reiterata: da dove ti viene questa autorità?
Un certo chiedere è un chiedere conto: la mano che sembra tendersi in domanda si raccoglie ben presto e si capovolge nel chiedere conto. Sembra mano aperta per chiedere e per ricevere, in realtà si cambia subito in un pugno per colpire il prossimo. Un pugno che diventa tale perché quello che so su di te mi permette di parlare male di te; mi aiuta a farmi un’idea che mi possa un domani essere utile per squalificarti. Diventa un’arma del gossip: appena un limite di una persona viene alla luce, sembra che i testimoni di quel limite spuntino da ogni dove. Fino a prima nessuno sapeva nulla, dopo tutti sanno tutto e possono pontificare sulla vita del prossimo con quella cattiveria con cui hanno covato dentro di loro quanto, grazie ad una domanda apparentemente senza interesse, erano venuti in possesso come sapere.
Quando il chiedere è un chiedere conto la domanda da umanizzante diventa disumanizzante. Diventa uno strumento per colpire l’altro, un corpo contundente con cui potere atterrare il prossimo. Quando il chiedere è in realtà un chiedere conto non ci interessa se quanto Gesù ha fatto è stato bene, ma chi gli ha dato il permesso di fare quel bene o quella data opera.
Abbiamo bisogno di squalificare l’altro, diversamente non esistiamo. A ben guardare la politica ma ancor più un certo tipo di giornalismo stanno in piedi grazie a questo: hanno bisogno del male e del male del prossimo per esistere. D’altronde uno che anziché dare una mano ad uno che sta male ha bisogno di fotografare perché questo è il suo lavoro e se vuole essere professionale non può neanche fare una carezza a chi sta male, la dice lunga sul quanto necrofili siamo diventati. Più uno sta male e più la mia professione ne guadagna: è una bella professionalità che uccide il cuore e ogni possibilità di coscienza.
Le domande diventano morbosità e arma contundente contro il prossimo al quale non si dà alcuna possibilità di difendersi. A questo, troppo spesso, si sono ridotti i nostri giornali: tribunali a cielo aperto ai quali non interessa la verità ma il macabro e l’esagerato nel male. Noi che vediamo e ascoltiamo invece di chiederci cosa c’è di vero perdiamo ogni capacità di domanda e beviamo come vero tutto quello che ci trasmettono.
Ma è vera questa cosa? Ma l’ha detta la TV, è la risposta che ci ritorna. La TV e i giornalisti con lei diventano il nostro dio in terra, fonte di idolatria e di morte per l’uomo.
Domandiamoci bene cosa è bene e lasciamo la pretesa di chiedere conto leggendola per quello che è: strumento di disumanizzazione, di falsificazione e di morte.
AUTORE: p. Giovanni Nicoli FONTE SITO WEB CANALE YOUTUBE FACEBOOKINSTAGRAM