Nel capitolo 8 Luca ci ha presentato i discepoli che ascoltavano e vedevano; ora, nel capitolo 9, ci presenta i discepoli che sono direttamente coinvolti nel destino di Gesù, nella sua missione. La parola che entra dall’orecchio nel cuore, muove mani e piedi, perché gli occhi giungano a vedere colui di cui si è udita la voce.
I discepoli sono chiamati a continuare l’opera di Gesù: da lui e come lui sono inviati. Il fine della missione è l’eucaristia, così come fine del servizio di Cristo fu il dono del suo corpo. Nell’eucaristia (proviamo a viverla oggi sulle strade nel mondo e andando a Messa) noi ripresentiamo al Padre oggi il suo Figlio donato a noi e in lui presentiamo al Padre noi stessi, che di questo dono mangiamo e viviamo.
Dopo le chiamate dei capitoli precedenti ora i dodici sono chiamati una terza volta per essere effettivamente inviati a continuare la missione di Gesù che termina nell’eucaristia. Anche noi, nella nostra vita, come i discepoli siamo chiamati più volte da Gesù e in queste chiamate reiterate noi possiamo scoprire una coscienza sempre diversa e sempre nuova del nostro essere discepoli.
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In questa chiamata Gesù dona un breviario di viaggio ai discepoli. Le cose da dire o da fare non dipendono da noi: potere sui demoni, curare le malattie, proclamare il regno di Dio, guarire gli infermi. Questa consegna è completata dal come ed è sostenuta da un imperativo: non prendete.
Per noi l’importante non è cosa dire (quanto tempo perdiamo a cercare di sapere cosa dire a una persona malata, ad un’altra angustiata, ad un’altra ancora che non riusciamo a convincere dell’importanza della fede…) ma come essere.
Cosa dire: quando sarete portati davanti ai tribunali degli uomini non preoccupatevi di cosa dire, lo Spirito parlerà in voi. Ma il come essere dipende da noi ed è quello che ci permette di non contraddire con la vita ciò che annunciamo con la bocca: siamo chiamati a riprodurre i lineamenti del Cristo che ci invia.
Chi annuncia ha il tragico potere, per quanto sta in lui, di offuscare o annullare l’annuncio: se non ha il potere di renderlo credibile, è tuttavia in grado di renderlo incredibile. È la responsabilità dell’uomo, il quale, non essendo Dio, non può dare la vita; è però in grado di dare la morte a ciò che vive.
Questo è come è la povertà, l’umiliazione e il fallimento: senza queste tre caratteristiche non siamo associati veramente a Cristo.
Questo noi spesso lo intuiamo: capiamo che certe scelte aprono la strada al fallimento, alla solitudine, all’essere in pochi: e ci tiriamo indietro.
Questo tirarci indietro fa fallire la missione. L’accogliere questo ci rende capaci di essere lievito e sale: poco, povero ma potente nell’amore della sua pochezza e, all’apparenza, della sua inutilità.
La missione non ha in sé un grande share di ascolto: e noi questo lo intuiamo benissimo e spesso, con la scusa che non siamo pronti, non siamo bravi, non siamo adatti, che dobbiamo cercare il modo e il tempo migliore, giriamo l’angolo in attesa: in attesa che la croce passi. Falsifichiamo in tal modo la missione perdendo occasioni preziose per il Regno.
Il male fatto a fin di bene, deriva dal non aver usato gli strumenti adeguati. Per il discepolo lo strumento adeguato è la Croce del suo Signore che ha salvato il mondo.
Cerchiamo di riconoscere oggi le difficoltà non come negazione del bello della vita o come fallimento ma come occasione per annunciare il Regno, come Croce attraverso la quale possiamo seguire Cristo e salvare il mondo.
Che la nostra giornata possa essere una eucaristia sul mondo, unico vero strumento di pace, di condivisione e di giustizia.
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