Gesù è venuto per compiere un giudizio: perché chi è cieco veda e chi crede di vedere veda la propria cecità.
“Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli”! Pur avendo visto non vi pentite per credergli. Gesù dice questo ai capi, sommi sacerdoti e anziani nel tempio: gente che gli chiede quale è il suo potere. Una domanda a cui non può rispondere semplicemente perché non sono disposti a riconoscere il loro errore, tirandone le conseguenze.
Chi non vuole cambiare non può capire chi gli propone il contrario di quanto lui fa. Gesù non si diverte a capovolgere le nostre idee. Non è dispettoso per questo le nostre idee le capovolge solo per raddrizzarle. Raddrizzarle significa accorgerci che siamo chiamati ad essere consci del fatto che “i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie” (Is 55,8).
Ciò che emerge, in questa relazione col Padre, è che chi non vuole convertirsi non è abbandonato a se stesso. Ciò che Dio ci dice con le parabole è finalizzato a far sì che possiamo “vedere di non vedere”: questa è conversione, questa è guarigione.
Gesù si rivela con chiarezza a chi lo ama anche se non lo capisce. A chi lo capisce, ma non lo ama, Dio parla prima con il silenzio suo, in seguito con parabole. È un modo bellissimo di parlare perché insieme tace e dice: esprime qualcosa di comprensibile che allude ad altro che è ciò che uno comprende quando vuole.
Questo brano evidenzia come l’ascoltatore sia colui che non vuole convertirsi: è il fratello che dice di sì, ma non fa! L’ascoltatore quando è cosciente di questo può diventare come l’altro fratello: dice di no ma poi cambia parere!
I sacerdoti e i notabili del popolo, gente importante, sono come il fico: ha tante foglie ma nessun frutto. Sono come il tempio: spelonca di ladri e non casa di preghiera. Sono coloro che non si convertiranno mai semplicemente perché si credono giusti. I peccatori hanno un vantaggio: non fanno la volontà di Dio, ma non si fingono giusti: si ricordano chi loro sono.
Fare la volontà del Padre sta al centro di ogni vita e consiste nel riconoscersi figli e vivere da fratelli. Questo è fattibile e possibile per chi si converte. Sappiamo bene, però, che si converte solo chi sente disagio del proprio male.
Vero cieco è chi crede di vedere, vero peccatore chi si crede giusto! Il peccato di chi si crede giusto non può ottenere perdono perché il giusto neppure lo vuole.
Mettere in evidenza questo peccato, questo peccato veramente grave, porta la parabola ad evidenziare che non ci si illuda che il tutto si consumi in una sorda resistenza allo Spirito.
Fare la volontà di Dio è conoscere e accogliere il giudizio compiuto sui capi. La parabola viene spiegata perché è bene che ognuno la possa comprendere. La comprensione è ciò che Gesù ci ha donato fin dall’inizio: chi è cieco veda e chi crede di vedere veda la propria cecità!
Noi fedeli, noi chiesa, ci riconosciamo, come faceva Israele, in coloro che dicono: “Signore, Signore!”. Dire tutto ciò senza fare la volontà amante del Padre.
È l’antica casta meretrix, meretrice che diventa casta perché riconosce il suo essere prostituta. Per lei diventa sì ogni volta che lei, cioè noi, riconosce il proprio no e si converte.
La lettura della Parola chiama ingiusto il mio essere meretrix concretizzando in tal modo la chiamata alla conversione. L’ascolto della Parola quando diventa un tentativo di autogiustificazione mi indurisce nella mia cecità, il più delle volte negata.
Così il vivere l’essere figlio è un vivere nella sua dimensione di verità e di libertà, mettendo in luce anche la fragilità. L’obbedienza, cioè il sentire ciò che il Padre mi dice per quello che è, e non per quello che io voglio dimostrare di me stesso, mi chiede di non dipendere dal fingere, di non avere bisogno di mantenere una maschera per essere riconosciuto.
AUTORE: p. Giovanni Nicoli
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