p. Giovanni Nicoli – Commento al Vangelo del 27 Dicembre 2019

Giovanni, il più giovane dei discepoli, l’ultimo rimasto, l’ultimo a scrivere un vangelo, l’ultimo testimone oculare della risurrezione. Tutti sono scomparsi, è rimasto solo lui, solo lui ha visto, tutti gli altri, cristiani dei primi tempi, non hanno visto. Beati coloro che pur non avendo visto crederanno, farà dire Giovanni a Gesù quando Tommaso finalmente può mette la sua mano nel costato di Cristo. È il passaggio dall’esperienza dei primi alla nostra.

La risurrezione che ricordiamo oggi a due giorni dalla nascita di Gesù, è troppo bella per essere vera. Se andiamo davanti al sepolcro di Cristo cosa vediamo? Il vuoto! Niente! Se vedessimo qualcosa non potremmo neppure lontanamente pensare alla risurrezione. C’è un’assenza, un’assenza indebita, secondo la nostra esperienza. Se infatti nasciamo per caso e viviamo non si sa come né quanto, siamo sicuri di tornare al sepolcro e lì rimanere. La stessa Maria di Magdala, correndo dai discepoli, dirà che “hanno portato via il Signore e non sappiamo dove l’hanno posto”. Dimmi, dirà al giardiniere piangendo, dove lo avete portato e andrò a prenderlo. La risurrezione sconvolge le nostre categorie e i nostri parametri vitali. Non sappiamo che fare di fronte a quel vuoto. Ma se facciamo un po’ di silenzio, se facessimo tacere la ridda di pensieri e di pregiudizi concreti con cui giudichiamo la vita e la morte, forse qualcosa potremmo ancora capire. Riuscire a contemplare l’assenza lasciando che il vangelo, in particolare quello di Giovanni, tocchi la profondità del nostro intimo. Non vediamo, non vediamo nulla, ma sappiamo che è così perché l’essenziale è invisibile agli occhi.

Forse il sepolcro vuoto infrange l’unica certezza che noi abbiamo: quella di morire. Passi per la mangiatoia dove viene deposto il Bambino Dio, ma anche il sepolcro vuoto, no! Questo è inammissibile. Eppure se il Cristo non fosse risorto vana sarebbe la nostra fede. Il sepolcro è l’unico ricordo e l’unica certezza. Senza, viene infranta la memoria di morte che noi abbiamo. Questo basta? Certamente no, è necessario fare esperienza della risurrezione.

Allora il sepolcro vuoto non è luogo di separazione e morte, diventa invece luogo di comunione. I teli, viene avvolto in fasce e deposto nella mangiatoia, diviene Pane da subito tanto più dopo la sua morte e risurrezione: è Pane donato per la nostra salvezza. La nostra morte sarà incontro con Lui, perché l’amore è più forte della morte. Giovanni, vedendo i segni di vuoto e di fasce e bende lasciate, crede nel Risorto. Crede perché si lascia toccare e non tira su muri per difendere la memoria della sua esperienza della morte. Dal sepolcro vuoto comincia la comprensione vera di tutte le scritture.

Non ci basta il sepolcro vuoto, ho bisogno di incontrare il Risorto! L’incontro col Risorto è cosa semplice e umana. L’incontro col Risorto è lasciarci risorgere. Se incontri la Luce, hai luce e sei illuminato. È cosa del viso, la risurrezione, come specchio e manifestazione della persona. Se ti incontri col fuoco, si vedono i segni. Se ti incontri con l’acqua si sente che ti sei lavato. Se ti incontri col Risorto, cambi dentro.

Qui viene il bello ma qui è anche dove casca l’asino: nessuno ci insegna ad incontrare il Risorto. Parliamo di tutto, spieghiamo ogni dogma della fede, ma non siamo capaci di incontrare e di fare incontrare il Risorto. Diamo così ragione a Nietsche quando dice che “non è vero che Cristo è risorto, se no i cristiani avrebbero un’altra faccia”.

Il vedere con occhi diversi, l’udire l’inudibile, il sentire ciò che nel rumore non sappiamo sentire, ci porta a cogliere l’invisibile. Dare importanza al sepolcro vuoto, non riempirlo di doni che poi andiamo a riciclare per inquinare di meno –bellissimi questi doni mi verrebbe da dire-, incontrare il vuoto dove ancora c’è spazio per uno sguardo di vita e di incontro relazionale, è fare esperienza di risurrezione. Non importa quello che diciamo, mi viene da dire, anche nelle nostre prediche. Ciò che importa è scorgere lo sguardo del risorto nelle profondità dello sguardo del fratello e della sorella. Scorgere tale sguardo comunicandolo, crea comunione e incontro, crea spazio di vita non riempito. È darci tempo e dare tempo. Non lo abbiamo? Proviamo a pensare a quante ore dedichiamo al nostro cell ogni giorno: togliamone una e dedichiamola a guardarci negli occhi, a guardare negli occhi cogliendo la presenza del risorto, alla persona che ci viene incontro o alla persona che abbiamo bisogno di incontrare. Non ho tempo per mio figlio? Non è vero: ho meno tempo ma ne posso dedicare di più come spazio e come intensità, se solo metto per un po’ sotto una campana di vetro quel bel mezzo di comunicazione che rischia di diventare diabolico, ci divide e ci succhia sangue anziché facilitarci la vita e la comunicazione.

Giovanni ci invita ad entrare nel sepolcro vuoto, senza cell, per fare esperienza di risurrezione. Guardiamoci negli occhi e scorgiamo la bellezza che vive in noi: sarà risurrezione vitale per noi e il nostro mondo che rischia di rinsecchirsi.

Fonte

Commento a cura di p. Giovanni Nicoli.

LEGGI IL BRANO DEL VANGELO DI OGGI


L’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro
Dal Vangelo secondo Giovanni Gv 20, 2-8   Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala corse e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!».   Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò.   Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario –  che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte.   Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Parola del Signore

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