HomeVangelo del Giornop. Giovanni Nicoli - Commento al Vangelo del 26 Novembre 2023

p. Giovanni Nicoli – Commento al Vangelo del 26 Novembre 2023

Commento al brano del Vangelo di: ✝ Mt 25, 31-46

La pagina evangelica è costituita dallo straordinario affresco del giudizio universale che Matteo dipinge con la sua penna. Non si tratta di una parabola ma di una visione di giudizio. Al centro c’è il Figlio dell’uomo descritto come giudice escatologico che siede sul seggio del giudizio di fronte a cui si presentano “tutte le genti”.

Il giudizio finale è espresso dall’immagine della separazione del grano dalla zizzania e dei pesci buoni da quelli cattivi. Si tratta di Cristo Re della profondità che raggiunge il cuore umano: si tratta del giudizio di tutti gli uomini e di tutto l’uomo.

Colpisce che la visione che abbraccia l’intera umanità si accompagni allo sguardo posato su ciascuno e, in particolare, su quelle persone che normalmente sono le più invisibili: poveri, malati, carcerati, affamati, assetati, stranieri, ignudi. Non a caso il nostro testo li chiama “minimi”.

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La logica è quella del tutto nel frammento. La carità verso il bisognoso, il gesto di condivisione che è così semplice, umano, quotidiano, alla portata di tutti, credenti e non credenti, diviene ciò su cui si esercita il giudizio finale.

Venanzio Fortunato commenta che “fra entrambi i poveri è diviso il calore e il freddo, il freddo e il caldo diventano oggetto di scambio, l’uno riceve una parte del tepore, l’altro prende una parte del freddo: una stessa povertà è condivisa da due persone”.

Matteo ci pone di fronte allo sguardo di Cristo che vede ciò che gli umani non vedono o faticano a vedere. Sguardo che dà rilievo agli invisibili della storia, che sono spesso i senza voce, spiazzando anche i destinatari del giudizio che restano tutti sorpresi nel ricevere la rivelazione di ciò che hanno o non hanno fatto.

Il giudizio del Figlio dell’uomo giudica il tipo di sguardo che abbiamo sul povero e sul bisognoso. Giudica il nostro giudicare l’altro per cui il carcerato è uno che ha ricevuto ciò che si merita, lo straniero è uno che disturba la nostra tranquillità, il malato è uno che sconta i suoi peccati, il povero è uno che potrebbe lavorare di più: il giudizio divino giudica il nostro chiudere le viscere a chi è nel bisogno. Giudica il nostro sguardo che vede nell’altro un colpevole e non una vittima. Lo sguardo che Gesù ha sempre avuto nei suoi incontri con tante persone nel corso della sua vita ha sempre visto la sofferenza degli umani prima che il loro peccato.

L’universalità del giudizio emerge anche dal fatto che si fonda sulla valutazione di gesti umani, umanissimi, fatti (o non fatti) da credenti e da non credenti. I semplici gesti di aiuto, carità e vicinanza espressi costituiscono una sorta di grammatica elementare dell’umana relazione con l’altro, senza la quale non si potrà mai comporre una frase veramente cristiana. Il volto mi interpella: l’uomo è colui che risponde di un altro uomo.

Se il giudizio si fonda sulla tradizione ben nota al mondo giudaico delle opere di misericordia, qui la novità consiste nel fatto che il Giudice si identifica con i destinatari delle azioni misericordiose: “Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.

Ben diversa è la sorpresa dei benedetti e quella dei maledetti: c’è una ignoranza benedetta del bene che si compie e c’è una ignoranza del male che si compie o del bene che non si compie.

Questa pagina evangelica pone l’accento su quella dimensione del nostro peccare che è la più diffusa: l’omissione. Chi mai può sfuggire all’omissione? Chi mai può dire in assoluta certezza di aver fatto davvero tutto ciò che era in suo potere di fronte a una determinata situazione di bisogno? Né vale il dire di non aver visto: i nostri occhi si chiudono di fronte a visioni di sofferenti e i nostri orecchi si chiudono di fronte a chi cerca di dire il proprio dolore. Temiamo il contagio.

Gesù dice: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, voi fatelo a loro”: amando l’altro amerò il Signore.

Quanti racconti nella letteratura monastica (nella letteratura lo splendido racconto di Tolstoj, Dove c’è l’amore, c’è Dio) in cui facendo il bene in maniera semplice e quotidiana a un misero, dando da bere a una persona assetata, dando riparo a una persona smarrita, portando sulle spalle un anziano, si scopre di aver fatto questo a Cristo stesso. Non perché quella persona non fosse un vecchio o un assetato o uno che ha perso la strada, ma perché Dio è in quell’amore, in quella uscita da sé in totale gratuità.

“L’amore per Dio non può far altro che esprimersi nell’amore per il prossimo”.

Negli esempi di aiuto e prossimità enumerati nel testo evangelico vi è un aspetto spesso trascurato nella riflessione: l’attitudine di lasciarsi aiutare, di lasciarsi avvicinare, toccare, curare, servire. La capacità e l’umiltà di lasciarsi amare fattivamente. Una capacità che rivela una dimensione di povertà più radicale della malattia o della fame o della nudità e che si chiama umiltà.

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