Quando cammini per strada a testa bassa, quando vedi gli altri camminare alla stessa maniera e magari con un passo stanco e dinoccolato, pensi a quanto sia dura la vita e a quanto il quotidiano sia pesante.
Quando camminiamo e viviamo a testa bassa manifestiamo tutto il nostro affaticamento e tutta la nostra oppressione, se guardiamo a come vanno le cose nella nostra vita, ne abbiamo ben donde. Credo che una delle nostre fatiche più grandi sia affinare il nostro sguardo e guardare nella giusta direzione, ma, soprattutto, guardare oltre la siepe, oltre il già noto, oltre lo scontato, oltre ciò che ci appare come ciò che non va, oltre le apparenze.
Volgere lo sguardo oltre significa alzare il capo della speranza. Volgere lo sguardo oltre significa accogliere la nostra insicurezza che emerge quando non viviamo in modo ripetitivo e non guardiamo col solito sguardo che vede il già noto. È un atto di fede e di coraggio alzare lo sguardo e pulire i nostri occhi dal già noto, che ci incammina nella giusta direzione, nella direzione della speranza.
Non possiamo passare tristemente la nostra vita in attesa che le cose vadano meglio o vadano bene: è fuorviante questa attesa.
Siamo chiamati a liberarci da questa necessità impellente senza la quale sembra che la vita e il mondo vadano a rotoli: non è quello il problema. Il bisogno che le cose vadano bene è da un lato una necessità umana, dall’altro ci dice la nostra immaturità dove la dipendenza dalle cose che vanno bene manifesta tutta la sua forza; da ultimo questo dipendere dalle cose che vanno bene manifesta tutta la nostra poca fede, il nostro non riuscire ad andare senza sacca né bisaccia né denari nella borsa.
È una paura che nega la bellezza della povertà e che ci porta a vivere in continua dipendenza dai risultati. Questo è un modo di vivere da capitalisti non da chi, col capo chino per la fatica e l’oppressione, viene a Gesù che è mite e umile di cuore e che ci invita a prendere su di noi il suo giogo, il giogo dell’amore.
È scelta e maturazione dove ciò che importa non è arrivare a Santiago il termine del nostro pellegrinare, ma ciò che importa è pellegrinare, liberi da ogni peso.
Cosa guardiamo? Come guardiamo? Cosa ascoltiamo e come ascoltiamo? Che cosa attendiamo dentro di noi? La risposta a queste domande è premessa per potere volgere lo sguardo a Colui che ci libera dalle nostre catene oppressive. Ciò significa non lasciarci prendere dal terrore che avvolge tanti nostri contemporanei, i contemporanei di ogni tempo, ma alzare il capo, alzare lo sguardo a Colui che hanno trafitto e comprendere che da lì viene la salvezza nell’oggi di Dio.
Lo sguardo nuovo è vittoria sul male. Da un cuore così vinto nasce il canto del Magnificat che celebra l’esaltazione degli umili e l’umiliazione degli esaltati.
In fondo cosa vede il malfattore in croce? Vede in modo nuovo per questo vede il Re del nuovo regno che è in mezzo a noi. Che cosa vede Stefano nel momento in cui, lapidato, subisce il martirio? Vede cieli nuovi e terra nuova, vede il Signore che nella morte gli si fa vicino. Che cosa vede Zaccheo sul sicomoro? Vede Gesù che lo guarda come nessuno lo ha mai guardato.
Cosa vediamo noi e come vediamo noi? Dal nostro guardare e dal nostro ascoltare dipende il ritmo dei passi della nostra vita pellegrinante. Passi di speranza o passi di disperazione. La vita non dipende dalle cose, dipende dalla vita che c’è in noi. Non io dipendo dalle cose, da Mammona, ma le cose, Mammona deve dipendere da me.
Così la vita non sarà più schiava della morte. Così non temeremo il futuro perché il problema non è salvarci. Così, liberi dall’egoismo, possiamo vivere da uomini e donne nuovi, capaci di amare come Lui ci ama. Drizzati e con le teste alzate, pieni del suo amore e della sua speranza.
AUTORE: p. Giovanni Nicoli FONTE SITO WEB CANALE YOUTUBE FACEBOOKINSTAGRAM