Nel vangelo di oggi possiamo cogliere come la reazione che chiunque sente nascere spontaneamente in sé alla lettura di questa parabola è: “No, non è giusto”!
Non è giusto che lavoratori che hanno faticato un’intera giornata sotto il caldo ricevano la stessa paga di chi ha lavorato un’ora sola, e per giunta la più fresca. Non è giusto che operai che hanno lavorato per tempi diversi impegnati nello stesso lavoro, ricevano la medesima retribuzione.
In questa parabola scorgiamo normalmente una parabola che in bocca a Gesù mirava a giustificare il suo comportamento di fronte ai suoi detrattori che lo rimproveravano di prediligere peccatori e pubblicani, di rivolgersi preferenzialmente a loro, ultimi destinati a divenire primi nella logica paradossale del Regno.
- Pubblicità -
Pietro, nel capitolo precedente, chiede a Gesù che cosa guadagneranno i discepoli dall’aver lasciato tutto e seguito Gesù. C’è una richiesta di ricompensa.
C’è una rivendicazione di merito, o meglio, una pretesa di primo posto: qualcosa a noi quotidiana come cosa normale e giusta.
Questa pretesa dei due fratelli, i figli di Zebedeo, che insieme a Pietro e Andrea sono i primi chiamati nel vangelo secondo Matteo, suscita il malcontento e la protesta degli altri membri della comunità che si sdegnano con loro e litigano.
La nostra parabola è così incorniciata tra le due frasi che parlano degli ultimi che diventano primi e dei primi che diventano ultimi (19,30 e 20,16): questa dinamica vale anche all’interno della comunità cristiana.
Ci sono alcuni che ritengono di avere dei diritti di prelazione e di poter godere di una maggiore vicinanza con Gesù e di un onore maggiore di altri. C’è chi pretende di avere un posto privilegiato! C’è pure una domanda sul senso del gesto di radicalità cristiana di abbandonare tutto e mettersi a seguire Gesù.
C’è chi si merita e chi non si merita! In questa parabola possiamo cogliere un richiamo che Gesù fa alla sua comunità e alle logiche che devono vivificarla mettendo in guardia dalle dinamiche che sono distruttive.
La parabola è divisa in due parti, una che inizia all’alba, al mattino presto (vv. 1-7), la seconda che inizia una volta venuta la sera (vv. 8-15).
Nella prima parte, alle diverse ore del giorno, partendo dalle sei del mattino fino alle 17 (l’ora undicesima), il padrone di casa esce a prendere a giornata dei lavoratori per la sua vigna, probabilmente per la vendemmia. Con i primi si accorda per un denaro al giorno. Ad altri che chiama più tardi dice che darà loro ciò che è giusto. E noi lettori cominciamo a pensare a cosa potrà essere questo “giusto”. Certamente, egli pensa, cioè noi, che sarà una paga che tiene conto del fatto che questi hanno lavorato meno dei primi. Colpisce nella parabola il comportamento del padrone della vigna che continua a cercare operai anche quando ormai il lavoro della giornata sta terminando.
Anche alla fine del pomeriggio, quando è insensato ingaggiare ancora operai (che senso ha ingaggiare qualcuno che lavorerà a mala pena un’ora?), egli dà un lavoro a chi non ne ha.
Questo padrone in cerca di operai è immagine di un Dio che desidera l’incontro con gli uomini, che va in cerca degli uomini e si coinvolge con loro: questa è la priorità di ogni cuore che ama! La motivazione di questa ricerca non è in urgenze lavorative che il testo non dice, ma solo e unicamente nella volontà del padrone.
La prima parte della parabola è incentrata sull’arruolamento di chi dovrà andare a lavorare, la seconda parte (vv. 8-15) riguarda il momento del pagamento. Dice il Deuteronomio: “Darai all’operaio il suo salario il giorno stesso, prima che tramonti il sole” (Dt 24,15).
Il pagamento inizia dagli ultimi, ed è questo che consente che i primi diano vita alla loro contestazione. Che il pagamento inizi dagli ultimi -fatto non spiegato nel testo- è forse un’allusione alla scelta preferenziale degli ultimi che caratterizza il Dio biblico? Non sappiamo. Sappiamo però che così i primi vedono il pagamento accordato agli ultimi. Vedono e vengono a sapere.
Il vedere che agli ultimi è data la paga promessa a loro, suscita un’aspettativa nel cuore dei primi: noi avremo un salario maggiore. A cui segue la delusione perché viene data loro la stessa paga che agli ultimi.
Hanno cambiato l’attesa del cuore: non si attendono più di ricevere ciò che hanno pattuito: si attendono di ricevere più degli altri che hanno lavorato meno. E mormorano.
Il padrone mostra la sua giustizia: egli è irreprensibile dal punto di vista del diritto, perché ha rispettato il contratto di pagamento con i primi, e perché diritto inalienabile del padrone è di dare agli ultimi una misura analoga a quella dei primi.
Il diritto non è stato offeso. “Amico, io non ti faccio torto”. Ma forse il problema è un altro: “Sei tu invidioso perché io sono buono?”.
Il testo gioca con l’espressione occhio cattivo che contrasta con l’essere buono del padrone.
Ciò che risulta insopportabile ai primi è l’uguaglianza dei salari, anzi in profondità, delle persone: loro avevano tutti i diritti, secondo la loro logica, di aspettarsi di più. Ma tu, padrone, “li hai fatti uguali a noi” (li hai trattati come noi).
Ciò che la parabola ha di mira è la degenerazione del diritto in privilegio, in pretesa. Il gesto del padrone è sentito come scandaloso, anomalo, ingiusto, contrario agli usi, inammissibile, irricevibile.
Questa parabola intravede la fuoriuscita dalle logiche ferree di corrispondenza tra lavoro e paga, prestazione e retribuzione, e lascia scorgere un mondo segnato da gratuità, liberalità, generosità, da rapporti segnati non solo dal diritto, ma anche dalla grazia, dalla gratuità; non solo dal rigore del dovuto, ma anche dall’inatteso del gratuito: non il merito è l’elemento che deve decidere della gerarchia delle persone, ma la bontà di Dio.
Il testo ci interpella su ciò che è al cuore della nostra vita con Dio: la relazione o la prestazione? Concepire il proprio servizio a Dio come prestazione conduce a misurarlo e a confrontarlo con il servizio degli altri entrando in un rapporto di competizione. Se invece c’è la relazione con il Signore allora anche il peso della giornata di lavoro è “giogo soave e leggero” e la bontà del Signore verso tutti è motivo di ringraziamento, non di contestazione e di invidia. Gli operai della prima ora sono smascherati come invidiosi: l’invidia è come avere “l’occhio cattivo”.
L’etimologia è illuminante: in-videre, significa “vedere contro”, ed esprime lo sguardo torvo di chi si chiede: “perché lui sì e io no?”; “perché a lui come a me che meritavo di più?”. L’invidia ci acceca. Se essa è l’insofferenza verso i propri limiti che ci impediscono di raggiungere quello status che vediamo realizzato in altri da noi, essa chiede di essere corretta imparando a desiderare il possibile. Nell’invidia non solo non si vede più il Dio misericordioso, ma non si vedono neppure più i fratelli: si esce dalla solidarietà con gli altri, uguali a noi.
FONTE
SITO WEB | CANALE YOUTUBE | FACEBOOK | INSTAGRAM