Gesù ha perdonato al paralitico e lo ha sanato dalla sua paralisi; Gesù ha chiamato Levi dal banco delle imposte ed è andato a casa sua a banchettare annunciando che è venuto per i peccatori e non per i giusti; ha toccato il lebbroso e non si è contaminato, anzi lo ha guarito; ha preso per mano la suocera di Pietro e l’ha resa capace di nuovo di servire; ha sanato malati di ogni genere ed è salito sul monte a pregare. Di fronte a tutto questo movimento nuovo e vivo i discepoli di Giovanni e i farisei che stanno facendo digiuno chiedono a Gesù perché non fa digiuno.
Mi viene da pensare: che cosa è scattato nella mente di questi religiosi perfetti? Come si sono sentiti? Si sono sentiti giudicati? Sono timorosi nel vedere che qualcosa è cambiato? Forse nel loro cuore sentono che si è sempre fatto così e adesso? Adesso arriva sto qua e cambia le carte in tavola. Non si può continuamente cambiare. Sembra che le cose perdano di significato e di valore.
È vero: perché quello che era richiesto ai nostri vecchi come la cosa più importante della vita, oggi sembra avere perso valore? Perché, senza disprezzare nulla e nessuno, mi viene da pensare che mio nonno partiva col carretto alle 3 del mattino per portare il pane appena sfornato ai paesi vicini e mentre andava poteva sonnecchiare perché il cavallo sapeva dove andare e sapeva dove fermarsi e non c’erano pericoli? Perché? Forse qualcosa è cambiato. Come è cambiato qualcosa nella nostra società e nella nostra vita di ogni giorno. La religiosità che ha dato vita a tanti, oggi non ha più senso, ha senso invece il cuore di questa religiosità, vale a dire la fede che è il cuore della stessa senza fronzoli o cose che non danno più vita. Non sono cose cattive, diventate brutte, sono cose che hanno fatto la loro epoca e che possono ancora avere senso solo grazie ad un cuore rinnovato, un cuore che non dipende da certi gesti, un cuore che batte perché umano, perché crede.
Ai tempi sembrava che la nostra religiosità dovesse travalicare la nostra umanità. La nostra umanità era fustigata, dal mondo bisognava uscire, bisognava entrare nel mondo dello spirito se non volevi perderti. Oggi la fede ci chiede incarnazione, vale a dire buttarci nell’umano che è stato creato da Dio. Senza questa umanità la nostra società diventa a-fona, non dice più niente, perde il cuore, diventa macchina da guerra per produrre e per consumare. Il cuore della vita, l’umanizzazione della stessa, è luogo di fede dove l’immagine del volto di Dio deve venire allo scoperto, se vogliamo ancora capire qualcosa.
Qualcosa è cambiato. Non è il caso di prendercela con chi vuole ritornare indietro, bisogna comprenderlo non certo per giustificarlo, quanto invece per volergli bene. Ma non è quella la via. La via è riconoscere gli otri nuovi e utilizzare quelli per il vino nuovo, che è un vino di vita. Non è motivo per prendercela col passato o coi passati, anche loro fanno parte di quell’essere venuto di Gesù per i malati. La condanna è malattia del nostro cuore che ha bisogno di demolire il passato per dire che il presente è migliore. Ma questa è stoltezza e, soprattutto, è disumanità che uccide la fede vera.
E allora? Allora accogliamo l’invito di Gesù a non digiunare come Giovanni che aspetta il Messia: è già venuto. Accogliamo l’invito di Gesù a non digiunare come i farisei che digiunano per onorare la legge. Il cristiano è chiamato ad essere nella gioia perché il Messia è già presente, perché vede che la cosa più bella è essere in comunione con Lui, banchettare perché la salvezza è giunta nelle nostre case.
Il digiuno del cristiano è seguire Gesù fino alla croce, non per sacrificio ma per essere servi della vita come lo è stato Lui. Questo è il vestito nuovo e il vino nuovo: liberarci dalle smanie di potere di cui siamo schiavi e vivere il servizio come luogo di libertà e di vita vera, come dono della propria vita per il bello e il buono, per il vero e per gratuità. Lasciamo le pezze vecchie perché la chiamata è chiamata a vivere la novità dell’amore. Continuare a nasconderci dietro il lavoro per guadagnare per la famiglia o per se stessi è cosa da schiavi non da gente che ama. È necessario lavorare? Direi di sì. Ma il lavoro vero rimane tale se è via per amare i propri cari o le persone che ci sono affidate. Se il lavoro diviene fine a se stesso o è via per crescere in notorietà e bravura, è cosa fuorviante schiava di quella immaturità adolescenziale e giovanile dalla quale non ci siamo mai liberati.
Lasciamo le pezze vecchie della notorietà, del successo, dell’apparenza, da queste digiuniamo perché incamminarci su quella via vitale che è via di amore, che è via bella, che è via del servo che dona la propria vita per questo mondo sempre più disumanizzato che ha bisogno di fede, ha bisogno di umanizzazione.
In fondo questa è chiamata alla libertà che è in noi. Noi che normalmente siamo fuori di testa per le mille cose che ci prendono, siamo chiamati a ritornare in noi per cogliere che cosa ci spinge ad agire, quale è il sentimento che ci abita e quale è la motivazione che ci mette in movimento. Liberi da sovrastrutture e da tecniche che sono fine a se stesse, ritorniamo alla nostra vera umanità come via di fede e via di vita. Non vivere da agitati, spinti da idee più o meno esplicite e chiare; vivere da gente che coglie ciò che il cuore gli dice e pensa a questo cogliendo la via della vita che si apre davanti a noi ogni giorno, come cosa bella e non ripetitiva, come cosa vitale e non dovuta ma semplicemente colta e scelta.
Commento a cura di p. Giovanni Nicoli.
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