Questo vangelo rilancia la chiamata alla bellezza delle beatitudini e alla bellezza dell’amore per i nemici.
Lasciamo risuonare in noi ciò che ci dice Quasimodo: “Uomo, sei sempre quello della pietra e della fionda”. In questa realtà pregare per la pace non è una illusione.
Tutto questo ci rimanda alla realtà della vita di ogni giorno. Gesù ci riporta, con le sue affermazioni, a frasi che ruotano attorno agli occhi e al vedere, alla bocca e al parlare, al cuore. L’essere umano ha occhi per vedere, ma è spesso cieco; anzi è un cieco che guida un altro cieco.
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Gesù ci mette in guardia da un atteggiamento di giudizio: troppo spesso si tratta di chi corregge i comportamenti di un altro senza vedere e riconoscere i propri difetti. L’ipocrisia denunciata rivela la possibilità di vivere la fede in modo schizofrenico e falso. Il meccanismo psicologico che si mette in moto è semplice: mentre giudico e condanno l’altro mi autoassolvo da comportamenti che possono essere anche molto più gravi di quelli che denuncio. È la modalità ingannevole e ingannatrice di chi condannando altri, rende innocente se stesso.
L’invito è a conversione, a saper vedere se stessi nei propri limiti e peccati, a uscire dalla cecità che è sempre incapacità e non volontà di vedere il male che abita nel proprio cuore. La conversione può nascere soltanto dal fare la verità davanti a Dio vedendosi in verità.
Gesù ci invita a guardare dentro noi stessi: non tanto la pagliuzza che è nell’occhio del fratello, quanto la trave che è nel nostro. Ma di fronte a tanta violenza, a tanta ingiustizia che ci circonda, devo guardare alle presunte mie travi che ho nei miei occhi?
Gesù sa che ognuno di noi ha in se la tentazione di ergersi a giudice dell’altro e anche quella di vedere sé stesso come il solo innocente.
Ciò significa che nessuno di noi può dirsi del tutto privo di colpe e che la pace inizia proprio dentro di noi, nella nostra coscienza: quando riconosciamo nell’altro un fratello. È mai possibile che un esercito pronto alla guerra, una nazione, si accorga di avere di fronte non tanto dei nemici, quanto altri esseri umani che hanno affetti e famiglie?
Dagli occhi e dal vedere Gesù passa a parlare anche della bocca e del cuore. Dice il Siracide (III secolo a. C.) che “la parola rivela i pensieri del cuore”.
E Gesù aggiunge che “la bocca esprime ciò che dal cuore sovrabbonda”. Il cuore nella Bibbia è la sede della coscienza.
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La parola rivela il cuore dell’uomo. Riprendendo l’immagine del vedere possiamo dire che la parola fa vedere il cuore dell’uomo, mostra ciò che abita in lui. Il rapporto cuore-bocca, ovvero, interno-esterno, invisibile-visibile, silenzioso-udibile è manifestato dalla parola.
Sempre, quando parliamo, parliamo a partire da noi stessi e parliamo di noi. La parola è intimamente legata al nostro corpo e alla nostra anima, alla nostra biografia e alle nostre ferite, alla nostra affettività. La parola è anche forma di esplicita consegna di noi all’altro: la parola ci mette a nudo perché viene dal cuore, svela qualcosa della nostra interiorità. La parola può divenire strumento di violenza e di menzogna, non di verità.
Chi non sa vedere la realtà per come è o chi la vede in modo distorto avrà di conseguenza nella sua bocca una parola falsa. È dalla falsità della parola nata da una cattiva coscienza che ogni guerra e ogni atto di violenza ha sempre inizio. Si distorce la realtà, si affermano false verità, si costruisce così l’immagine del nemico. Tanto è più grande questa distorsione quanto più alta è la opposizione di chi la assume.
Gesù propone, al contrario, una parola umile, che è tuttavia una parola forte proprio a causa della sua debolezza. Perché Gesù si rivolge all’altro considerandolo come un fratello in cui non si vogliono vedere né pagliuzze né travi.
Ci dice papa Francesco nella sua enciclica:
“L’inganno è nel cuore di chi trama il male, la gioia invece di chi promuove la pace (Proverbi 12, 20). Tuttavia, c’è chi cerca soluzioni nella guerra, che spesso si nutre nel pervertimento delle relazioni, di ambizioni egemoniche, di abusi di potere, di paura dell’altro e della diversità vista come ostacolo” (256).
Gesù passa dai comportamenti che offendono la fraternità alla radice dei comportamenti, ovvero, il cuore: “L’uomo buono, dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male” (Lc 6,45).
In particolare, la frase finale del nostro testo evangelico pone uno stretto rapporto tra parola e cuore: “La bocca esprime ciò che dal cuore sovrabbonda” (Lc 6,45).
Centro intimo dell’ascolto e della parola è, nell’uomo, il cuore, biblica sede della volontà e dell’intelligenza, della ragione e della capacità decisionale, di emozioni e di sentimenti. Se “dal cuore sgorga la vita” (Pr 4,23) e “dal cuore umano escono i propositi di male” (Mc 7,21), la parola che l’uomo pronuncia ha in sé il potere di dare vita o morte: “morte e vita sono in potere della lingua” (Pr 18,21).
Ma il parlare presenta anche il rischio di creare. C’è il rischio di ridurre la vita di fede a questione di bei discorsi, quasi che, pronunciate le parole giuste su Dio, si fosse esentati dal metterle in pratica. Quante volte le parole forti (Dio, libertà, giustizia …) si sono accompagnate, da parte di chi le pronunciava, a pratiche che le smentivano radicalmente. Se la parola rivela il cuore, rivela l’intenzione profonda della persona: nel cuore nasce l’unificazione di parola e azione, di parola e gesto.
Se il frutto dell’uomo è il suo agire, la parola potrebbe anche divenire la foglia che copre la penosa assenza di frutti, che camuffa la realtà. Parola “buona” è allora la parola umile, la parola che ha il coraggio della verità e che non nasconde la realtà. Creare la fiducia perché una persona possa dirsi, accoglierlo nella propria umanità senza giudizi e condanne è compito pastorale necessario e vitale. Che richiede l’uscita dalla cecità, ovvero, la presa di coscienza della trave che è nel proprio occhio.
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