Siamo ancora convinti che la parentela e il sangue siano una condizione di degnità e di appartenenza. Per questo rischiamo ancora di cercare gente della nostra razza o paese, se non famiglia, per ruoli importanti nella società. Se possiamo dire che è dei nostri noi siamo già convinti che le cose andranno bene. Se ha il nostro cognome ha diritto all’eredità. Se è occidentale è una vita che vale di più di quella orientale o del sud del mondo. Se succede un disastro gli altri sono dei numeri e ci preoccupiamo se c’è un italiano fra di loro. Non basta essere figli del fondatore di un’impresa per raccoglierne l’eredità morale, anzi di solito “il padre fa il mucchio e i figli i mucchietti” disperdendo quanto hanno ricevuto.
Non così funziona l’appartenenza alla famiglia di Dio. Non vi apparteniamo perché siamo nati in una nazione cristiana, ma per chiamata. Potremmo dire che la porta del cielo è una voce! Voce che ci chiama, che ci conosce per nome, che noi riconosciamo. Questa voce è Parola incarnata che giunge a noi con una modalità inconsueta, quella di un Dio che dona la sua vita per noi, perché non vuole che nessuno vada perso. È una chiamata, o con un termine un po’ desueto una vocazione, che diventa vita, che tocca le profondità del nostro essere e delle nostre identità. Una profondità spesso nascosta o invasa da pietre e sterpaglie, ma identità che è e che grida perché possa venire alla luce. La voce del Signore che chiama col dono della sua vita per noi, è una chiamata per nome alla luce. Non è titolo nobiliare, non è eredità, non è sterile appartenenza ad una tribù di qualsiasi genere, ma chiamata per nome.
La vocazione, o chiamata, è ascolto delle voci più profonde della vita. Delle vocazioni è piena la terra, terra che grazie a loro rinasce e prende vita ogni giorno. Quante vocazioni riempiono la terra e quante vocazioni rischiano di rimanere nascoste e non venire alla luce. Quante realtà e situazioni ci parlano ogni giorno, direi tutte. Ma quante riusciamo ad ascoltare veramente e a sentirle nostre, nostra chiamata? A volte capita di sentirsi dire “ma questa predica l’hai fatta proprio per me”; oppure quel libro o quella poesia è proprio quello di cui avevo bisogno; oppure un incontro, una poesia, una passeggiata, una canzone. Sono tutte chiamate del Bel Pastore che giungono a noi perché noi possiamo lasciarci chiamare per nome e ritornare alla vita.
Chiamata ascoltata è disponibilità a diventare qualcosa che non sei ancora, è quella parte migliore di te che rimane spesso in ombra e che ci fa paura perché troppo coinvolgente. Non c’entra l’età: anche a 90 anni può rinascere una vocazione. Pensiamo ad Abramo, a Mosè che ritorna in Egitto a 80 anni per liberare il popolo. Pensiamo a Simeone o ad Anna ottantaquattrenne che cantano il benvenuto al Signore su questa terra. Non c’entra l’età, c’entra la vita.
La vocazione è in fondo un incontro con persone e luoghi di gratuità. Voci che spesso vengono soffocate dai rumori del quotidiano, un rumore troppo forte nella nostra civiltà. Ma c’è sempre un momento, oserei dire ogni giorno, in cui accade un incontro tra cielo e terra, tra passato presente e futuro. Da lì scaturisce la vita eterna, quella che non ha fine, quella che è vita di Dio. Lì scaturisce la vita che è affidamento al Signore della vita e non ad idoli che sono veri e propri vampiri.
Questo ascolto e questo affidamento è azione simbolica che a noi, nel nostro mondo cosiddetto disincantato, un po’ manca. È ascolto della Parola del Bel Pastore o ascolto dei mercanti di morte. È lasciare che la nostra vocazione, il nostro nome, possa venire a galla chiamato da chiunque ci ama, oppure lasciare il nostro nome nell’oblio e preferire il nostro cognome come sicurezza di eredità e di appartenenza che non darà mai vocazione. Lì nasce un atto di libertà nostra che scaturisce dall’ascolto della vita che batte dentro ogni cosa, ogni situazione, ogni luogo del nostro mondo.
Gesù Pastore non fa la guerra per noi, si dona per noi. La sua mano inchiodata in croce ci difende da ladri e briganti col dono di sé. La sua voce tocca le profondità del nostro essere, perché piena di vita non di minacce. Noi ci scandalizziamo per la sua morte, ma questa morte che è premessa per la risurrezione, è dono che tocca il nostro nome e lo fa venire a galla. È la sua mano inchiodata alla croce che è onnipotente. È la sua voce che spira lo Spirito nel momento in cui muore in croce, che chiama le nostre viscere a risvegliarsi a vita nuova. È il suo dono di amore che è onnipotente, non quegli eserciti che non è interessato ad avere.
Nei momenti di stanchezza, noi vorremmo ritornare a luoghi della nostra vita che hanno avuto senso e hanno dato senso. Ritorniamo ad ascoltare o a tentare di sentire in noi quella stessa esperienza che ci portiamo dentro. È un ritornare a lasciarci amare, è memoriale, è eucaristia, dove possiamo ancora sentire una voce bella che ci chiama per nome per risceglierci, per volere risognare quel primo sogno.
AUTORE: p. Giovanni Nicoli
FONTE: Scuola Apostolica
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