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p. Giovanni Nicoli – Commento al Vangelo del 17 Novembre 2024

Domenica 17 Novembre 2024
Commento al brano del Vangelo di: Mc 13, 24-32

La prima parte del vangelo di quest’oggi presenta lo sfasciarsi del cosmo. Questo sfascio serve da cornice per l’avvenimento decisivo che è l’apparizione del Figlio dell’uomo. La terza parte, il versetto 27, è il momento finale di tutta la storia che trova la sua realizzazione nel riunirsi degli eletti nella gioiosa comunione con Dio, come manifestazione piena del Regno di Dio. È l’attesa della seconda venuta di Cristo al di là della parabola della storia.

Le immagini apocalittiche simboleggiano il giudizio di Dio sul male del mondo. La visione del Figlio è il traguardo a cui sono orientati i segni premonitori. Gli angeli, sono la manifestazione dell’azione di Dio nelle vicende umane. La riunificazione degli eletti, qui non si accenna al castigo e/o alla sorte di tutti gli uomini, è il fine della storia. Il fine della storia non è l’annientamento di coloro che sono stati infedeli al messaggio di Dio, ma la manifestazione piena della luce di Dio su tutto e in tutti e la comunione personale con lui. Questa è la nostra speranza.

Ma cosa faremmo noi senza la speranza che sembra inondare il nostro quotidiano? Si spera un futuro che ancora non c’è, ma non è un’illusione! Senza questo futuro, tutto il presente sarebbe un nulla che verrebbe ingoiato dall’insignificanza. Che dico: che è ingoiato ogni giorno dall’insignificanza. Viene assorbito e ricade nel suo nulla. È l’angoscia sempre più vasta che constatiamo al giorno d’oggi, è la disperazione dilagante nelle strade della nostra esistenza.

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L’ignorare il senso dell’esistenza umana, il dubitare di ogni certezza, il non riuscire a vedere e a credere che vi possa essere un risultato positivo nella pena del vivere, porta alla disperazione.

Tutte le forze vitali di noi uomini e donne del nostro tempo si infrangono nella disperazione e si logorano nella dissipazione. Sembra che tutto il nostro agitarci finisca in un nulla, in vento che spazza la vita in un moto peristaltico. La pretesa di compiere qualcosa di sensato è ormai sepolta nella certezza che tutto non ha senso e nella disperazione che nulla ha speranza.

Rendiamoci conto che senza speranza, e ancor più senza speranza di riuscita, non si intraprende nulla.

La presenza di Dio come Signore della storia e come fine della storia stessa, dà un senso alla fatica del cammino. È il punto di arrivo della storia umana sotto il segno della croce, punto di arrivo che è la negazione della fatica della marcia, è il compimento e il godimento della gioia dell’arrivo: siamo in cima alla vetta!

La fatica dell’uomo non è inutile e senza senso. Ha una riuscita sicura, perché Gesù, il Cristo Crocifisso, ne è il Signore. Se lui è il senso, la direzione, il fine, la meta (questo significa che è il Signore), allora si dissolve la tenebra e brilla la luce per tutti i crocifissi. C’è il riscatto del male: questa è la grande speranza che ci è rivelata.

Se così non fosse, tutto sarebbe inutile. Non si saprebbe dove orientarsi e non si saprebbe neanche perché farlo. L’uomo infatti non fa nulla senza speranza. Ma la speranza è nella certezza che esiste un futuro: la non esistenza del futuro è disperazione, l’incertezza è angoscia.

Per il cristiano è vinta l’angoscia e la disperazione, non perché lui sia più bravo o perché sia più consistente psicologicamente, ma perché sua certezza è la venuta di Cristo. Questo non è evadere, questo è il motore che muove la storia e la mette in cammino verso il suo compimento. Senza di essa non c’è fine, non c’è moto, non c’è storia: il futuro ultimo agisce nel presente.

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Il dogma della venuta di Cristo, ci dice che il negativo sarà superato e il male vinto. Ci saranno cieli nuovi e terra nuova. Gli eletti saranno riuniti nella gioia presso Dio e la comunione tra gli uomini sarà totale: cesserà ogni lutto e pianto, litigio e guerra.

L’uomo raggiungerà finalmente il suo Dio, suo volto nascosto, che gli si è offerto come premio senza fine. Allora ogni ombra sarà dissolta dalla luce, e sarà pace, giustizia, gioia, vita e danza senza fine.

Quando il buio si fa più fitto e il male raggiunge abissi estremi, il cristiano non dispera: sa che il sole sorge nel punto più inoltrato della notte e che la raccolta avviene nella stagione più lontana da quella della semina. Per questo va avanti con coraggio e fiducia senza arrendersi mai, con un occhio al presente e l’altro puntato verso la meta, la manifestazione gloriosa del Crocifisso.

È la legge della vita: forse ce ne dimentichiamo perché non siamo più in rapporto col creato, ci ricorda che tutto ha una fine. Ci ricorda allo stesso tempo che ogni fine diventa un nuovo inizio. La dimenticanza di questo da una parte e la paura di quanto può avvenire dall’altra, ci obbliga ad agire in modo insensato pensando che noi dobbiamo darci una infinitezza di vita. Non vogliamo più morire non solo perché malati di un allungamento innaturale dell’esistenza ma anche perché ogni giorno non abbiamo più il coraggio di rimetterci del nostro per una scelta buona, per fare del bene, per fare della propria finitezza un dono di amore e di vita per il fratello. Malati come siamo di individualismo, figlio di una paura che noi pensiamo di esorcizzare col riempirci di cose e di sicurezze che non valgono una scorza, moriamo dietro ad un narcisismo di autoreferenzialità dove l’universo ha senso se io ci sono a governarlo, non se io sono in relazione con l’universo stesso e con chi quell’universo lo abita.

Di fronte a questa sapienza insensata che ci siamo costruiti e che ci chiude sempre più dentro la prigione illiberale delle sue spire, il Signore Gesù ci parla con la parabola del fico. Ci riporta alla natura, ci riporta al creato. Quando queste cose avverranno, queste cose che sono distruggenti la vita e che ogni giorno noi incontriamo e viviamo, “sappiate che egli è vicino, è alle porte”. È a quelle porte che noi abbiamo chiuso per non doverci relazionare con la vita: sono porte di morte. Lui è alle porte e ci chiede di aprirle, di ritornare a respirare e a vivere.

La legge della vita ci dice che tutto ciò che muore dona vita e lascia spazio alla vita. La morte delle foglie è un dono per l’albero, perché possa ritornare a germogliare e a dare frutti. La morte che noi riteniamo tale, il dono di noi stessi liberandoci dalla smania dei nostri interessi, è fonte di vita per il mondo intero.

Quando vedi il ramo del fico intenerirsi e spuntare le foglie, sai che il giorno dei frutti è vicino. È la fine dell’inverno, ultima stagione della nostra esistenza, che apre le porte alla vita nuova. È vero, come diceva Turoldo, che “la morte è come varcar la soglia e uscire al sole”.

Parlare dei tempi ultimi non è per farci paura. Magari parlare dei tempi ultimi solletica le nostre paure, ma lo scopo è farci mettere i piedi per terra e ricordarci che tutto ciò che facciamo ha una fine. Allo stesso tempo ci ricorda che questa fine è sempre inizio di qualcos’altro, di qualcosa di nuovo, di una vita nuova.

Il segreto della vita umana è quello di imparare a ricevere – questa è la fede – accogliendo ogni cosa con cuore riconoscente; per poter poi offrirla – questa è carità – non ritenendola più nostra, quasi lasciandola morire come dono al fratello. Questo segreto è il segreto della vita che viene riempita di speranza e diventa capacità di futuro e desiderio di ritornare a respirare aria buona non davanti ad un video, ma davanti al creato.

Questo cambia la vita e cambia il creato. Lo crediamo, noi che sappiamo che anche un battito di ali di una farfalla cambia il tempo che ci viene donato ogni giorno.

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