Forse una delle maschere di ipocrisia che noi credenti ci portiamo dietro è quella di credere che noi, siccome siamo salvati da Cristo, non siamo più portatori di peccato e di male. Il credente, senza la maschera dell’ipocrisia che è illusione di essere vedenti pur nella propria cecità, è e rimane portatore di male e di peccato.
I credenti e i discepoli che a migliaia si radunano attorno a Gesù, si calpestano a vicenda. Mi sembrano le migliaia di cose, di impegni, di programmi, di cui ci riempiamo la vita, che si calpestano a vicenda e calpestano la persona umana.
Noi che ogni giorno con i mezzi che abbiamo a disposizione possiamo abbracciare il mondo, non ci rendiamo conto che chi non abbracciamo più è la persona. Con i nostri collegamenti mondiali possiamo raggiungere ogni angolo della terra, ma, e questa è la nostra ipocrisia, non riusciamo più ad abbracciare l’uomo. Certamente oggi ancor meno, vista la situazione di distanziamento legata all’epidemia Covid che stiamo vivendo. Ma la durezza di questo momento può essere intenerita e vissuta solo dalla fraternità e dalla prossimità con un diverso “abbraccio” possibile.
Vogliamo essere protagonisti come l’ipocrita del coro del teatro greco, e questa diventa la finalità della nostra esistenza. Sappiamo bene che se usiamo certi mezzi e certe pubblicità noi raggiungiamo notorietà. Alla notorietà non interessa che tu ci sia, interessa che tu appaia e sappia bene, che tu sia un prodotto ben vendibile. Al giorno d’oggi il prodotto appena venduto diventa spazzatura, non serve più, il mercato ha bisogno di un altro prodotto per potere esistere e sussistere.
Così abbiamo miriadi di possibilità di collegarci col mondo ma non riusciamo più a collegare il cuore con chi ti è e passa accanto. Se sei per strada e incontri una persona ora, vi è indifferenza e paura; se tutti e due abbiamo un cane, i cani ci obbligano a fermarci a parlare, magari a parlare di niente, ma attraverso un cane forse ci guardiamo ancora negli occhi. Un cane viene accarezzato, un povero viene scacciato: più ipocrisia di così.
È ora che riconosciamo le nostre ipocrisie e ci rimettiamo in collegamento con il prossimo. Entrare nella vita dell’altro richiede coraggio, ma è la via che ci permette di superare l’ipocrisia dei mass media che ci soffoca e ci calpesta.
Sopra il nostro volto di figli di Dio c’è la maschera che impedisce di riconoscerci come creature sue, ci impedisce di chiamarlo col suo nome di Papà.
Questo è il lievito dei farisei, il nostro. È il principio di corruzione che fa fermentare tutta la pasta della nostra esistenza. Noi credenti, pur salvati, siamo portatori sani di corruzione e di ipocrisia. La nostra carne, coi suoi limiti e le sue paure, è combustibile per alimentare il fuoco dell’ipocrisia. Abbiamo bisogno di un altro lievito che non sia quello dei farisei, quello dell’ipocrisia, se vogliamo ritornare alla nostra umanità di creature. Abbiamo bisogno non della paura della morte che è alimento al nostro bisogno di ipocrisia, ma del timor di Dio che è alimento alla nostra umanità e figliolanza.
L’ipocrisia, la maschera, serve per nascondere la propria nudità che indica la nostra poca conoscenza di Dio e la non accettazione del nostro essere figli. Se non vogliamo continuare a vivere le nostre giornate schiacciati dalle miriadi di cose e di connessioni, dobbiamo ritornare ad avere il coraggio di toglierci questa maschera ipocrita per poterci guardare in viso e negli occhi. Così potremo ritrovare la nostra vera identità di persone che si incontrano e non di individui e monadi che si sfiorano senza mai incontrarsi.
AUTORE: p. Giovanni Nicoli
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