La bellezza della morte fa fatica ad entrare in noi e nella nostra esperienza. La morte non è cosa definitiva della nostra fine finale, quando il battito del cuore cessa. Forse quella morte non ci riguarda perché tocca più gli altri che rimangono che noi che ce ne andiamo. Ma la morte di ogni giorno a ciò che sembra bello, a ciò che è pieno di apparenza, a ciò che sa di conquista ma non ha nulla di amore, a un certo modo di fare e a certe cose che noi facciamo che ci lasciano sempre più poveri e sempre meno vivi.
Gesù evidenzia le nostre purezze esteriori, a cui dobbiamo morire, per la bellezza di una purezza di cuore. Purezza che non ha nulla a che vedere con la perfezione o la mancanza di errore e di peccato, tutt’altro. La purezza interiore è conversione dalla violenza di morte, è morire alla nostra violenza, è morire al prurito di dare la morte al prossimo puntandolo a dito a causa dei suoi errori e delle sue debolezze. Purezza interiore è camminare per monti e per valli verso un amore che dà vita in modo sempre più chiaro e netto. Segno dell’amore donato è la mancanza di giudizio sul prossimo.
Contemplare la luce che c’è in noi non è un’azione narcisista di autogratificazione, è invece un cogliere se la nostra luce è vera oppure non sia tenebra travestita. Ci può essere una luce che è falsa e che in realtà è tenebra ottenebrante la misericordia del Padre, grazie alle nostre condanne che scaturiscono da un cuore farisaico, da fratello maggiore che dice la verità essendo falsità.
Nel vangelo di oggi cogliamo due false luci, due luci che sono tenebre, che fanno parte della persona religiosa, qualsiasi credo ella abbia, anche il credo di potere e di economia.
Gli scribi e i farisei diventano, per Luca, una caricatura della persona religiosa, anche della persona religiosa atea o dipendente dalle cose. La persona religiosa è la persona brava, bravissima, perfetta nello studio e sul lavoro, che non sgarra mai, che è sempre inappuntabile, che è forte e che tiene, per questo, lontano gli altri da sé perché gli altri, peccatori, non lo meritano. È persona brava, bravissima, che non conosce l’amore del Padre e l’amore del fratello. Tale amore è per lei spazzatura che lascia il tempo che trova. Da buon fariseo la sua bravura serve per condannare il fratello e potere pregare Dio decantando il suo idolo: ringraziami dio perché sono veramente bravo. Non vi è più differenza alcuna fra io e dio, solo una piccola d di differenza. Io è il mio dio religioso che non ha nulla a che vedere né col Padre né con la fede. Così la carità è una mania per dimostrare la nostra bravura, mania che si nasconde dietro subito la scusa del fatto che io non posso risolvere il problema dell’altro, dimentichi che noi non siamo salvatori ma siamo semplicemente chiamati a volere bene all’altro, donando il nostro affetto e poi sparendo dalla circolazione. Ci fidiamo totalmente della nostra pratica religiosa che vive di esteriorità, così come anche la nostra carità disperante piena di cose da dare ma vuota di affetto, un’esteriorità perfetta, un’esteriorità che è vissuta in modo difensivo nei confronti di Dio che non può essere mio Padre. Io sono bravo, quindi mi devi premiare, caro mio dio che sei il mio io. Non puoi esimerti dal darmi la vita eterna perché sono bravo. Tu Dio sei cattivo ma io ti pago con la mia bravura, per questo devi darmi la vita eterna. Se sai contare e contabilizzare, se sei giusto e sai pesare bene, non puoi che mettere il mio io al tuo posto e darmi la vita eterna che sarà un’eterna solitudine dove posso gongolarmi nella mia presunta perfezione di vita che è fonte di morte e distruzione di ogni relazione filiale con il Padre.
Tu Dio sei cattivo e sempre pronto a condannare: meno male che io sono bravo e mi salvo non come quei pubblicani che non meritano nulla. Non crediamo, da buoni farisei, che la salvezza è l’amore gratuito, del Padre prima e poi nostro. Lui Padre/Madre dà la vita a noi figli, non decidiamo noi di venire al mondo, non ci diamo la vita da soli con le nostre farisaicità. Non è cosa magica questo amore, è cosa del cuore. In ciascuno di noi c’è un piccolo fariseo che è lento a morire e dal quale noi, come fratelli maggiori, non riusciamo a convertirci. Non riusciamo ad avere cuore buono verso il figlio minore che ha sprecato l’eredità del Padre con ladri e prostitute. Il Padre perdona e ama, noi condanniamo e puntiamo il dito. La giustizia meretrice di ogni condanna e disumana fino in fondo, è il nostro dio, giustizia che noi usiamo per condannare e uccidere il fratello. Detto in altre parole: preferiamo essere farisei che pagano la conquista della vita spargendo morte a piene mani e uccidendo la propria umanità, piuttosto che essere figli che si godono la bellezza dell’amore del Padre/Madre. Non accettiamo di essere figli, per questo resistiamo al Padre/Madre autogiustificandoci e costruendo con le nostre mani il nostro inferno quotidiano fatto di continue disumanizzazioni delle nostre relazioni.
L’unico passo a cui siamo chiamati è quello di convertirci al segno di Giona, vale a dire alla misericordia uterina e generante della Madre. Misericordia che ogni momento della nostra vita ci rigenera all’amore facendoci morire alla nostra schiavitù alla legge, al nostro fariseismo a cui immoliamo le nostre esistenze attenti a quell’esteriorità che ci permette di camuffare la nostra pochezza interiore.
Commento a cura di p. Giovanni Nicoli.
Fonte – Scuola Apostolica Sacro Cuore
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Date in elemosina, ed ecco, per voi tutto sarà puro.
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 11, 37-41
In quel tempo, mentre Gesù stava parlando, un fariseo lo invitò a pranzo. Egli andò e si mise a tavola. Il fariseo vide e si meravigliò che non avesse fatto le abluzioni prima del pranzo.
Allora il Signore gli disse: «Voi farisei pulite l’esterno del bicchiere e del piatto, ma il vostro interno è pieno di avidità e di cattiveria. Stolti! Colui che ha fatto l’esterno non ha forse fatto anche l’interno? Date piuttosto in elemosina quello che c’è dentro, ed ecco, per voi tutto sarà puro».
Parola del Signore