p. Giovanni Nicoli – Commento al Vangelo del 17 Febbraio 2021

Non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra! Prega il Padre tuo nel segreto. Perché la gente non veda che tu digiuni!

Una delle caratteristiche del bene e della conversione è quella della non visibilità del bene fatto, della mancanza di riscontro sociale. È nella sostanza stessa delle cose. È essenziale che il bene per essere tale vada fatto senza essere visto, o meglio, senza che ricerchi la visibilità e il riscontro sociale. Nel momento stesso in cui il bene viene fatto per un riscontro sociale, non è più bene. Cambia volto, cambia motivazione, il cuore è tutto preso da altra preoccupazione che non è il bene.

In tutto ciò che noi facciamo spontaneamente entra in gioco il bisogno di riconoscimento. Un riconoscimento che noi cerchiamo negli altri direttamente o indirettamente. Direttamente dicendo che lo vogliamo; indirettamente lamentandoci che facciamo tanto e non riceviamo nulla, oppure che gli altri nemmeno se ne accorgono, oppure che “con tutto quello che ho fatto…”.

Oggi inizia la Quaresima. Il vangelo ci riporta a tre pilastri della religiosità ebraica: la preghiera, il digiuno e l’elemosina. Sono simboli del rapporto con Dio, con se stessi e con il fratello. Il vangelo ci riporta a questi tre pilastri non perché noi diventiamo ebrei, ma perché l’essenziale per il cristiano nel rapporto con Dio, con l’altro e con se stesso è dato dal cuore e dalla capacità di gratuità che il nostro cuore ha.

Non fare nulla se non sai sopportare la mancanza di riconoscenza. Il bisogno di riconoscimento che c’è in noi e che entra in gioco ogni volta che noi facciamo qualcosa di buono, rischia di intaccare il rapporto che noi abbiamo con Dio nella preghiera, che noi abbiamo con noi stessi nel digiuno, che noi abbiamo con l’altro nell’elemosina.

Il bene, per essere tale, non può cercare riconoscimento e visibilità. Se cerca questo non è più bene perché sposta l’attenzione, il più delle volte senza che ce ne accorgiamo, dal bene da farsi al “che cosa me ne viene se faccio questo” o al “che cosa me ne è venuto con tutto quello che abbiamo fatto”. Normalmente questo bisogno viene a galla con più impellenza proprio nel momento in cui siamo più deboli, nel momento in cui maggiormente avremmo bisogno del sostegno degli altri, che normalmente non arriva.

Il darci da fare in una situazione con gratuità significa non aspettarsi nulla. Farlo perché ci credo e non fare nulla di più di quello in cui credo. Il ricercare l’attenzione dell’altro, che gli altri ci dicano che quello che stiamo facendo è bene, che sono d’accordo con quello che operiamo ogni giorno: tutto questo è fare un gran rumore attorno a noi, un rumore che uccide il silenzio con cui la foresta del bene cresce; è un far rumore che richiama più l’abbattimento di un albero, piuttosto che la crescita di un bosco. Questo tra l’altro crea intorno a noi e a quello che facciamo un vocio eccessivo che provoca solo mormorazione. Il male non aspetta altro per impallinarci per mano di chi sta alla porta ad osservare per scorgere il nostro passo falso.

L’invito che il vangelo ci fa in questa quaresima è innanzitutto un invito alla conversione, cioè un invito a riconoscere il nostro bisogno di approvazione e di riconoscenza. La quaresima non è fatta per scandalizzarci delle nostre debolezze o per giudicarci in perdita; la quaresima è un momento che ci può aiutare a capire le nostre debolezze e a rapportarci in modo nuovo con le stesse. Noi abbiamo bisogno di approvazione. Accogliere l’invito a pregare, a digiunare, a fare l’elemosina significa dunque accogliere l’invito a comprendere che vivere questi tre pilastri in modo ipocrita, come spesso ci capita, non serve, non è bene, porta solo astio e risentimento.

Accogliere questo invito significa smettere le vesti di onnipotenza che noi vestiamo: capire che io non sono Dio e non posso fare tutto il bene e tutto bene.

Riconoscere la propria pochezza per fare quel poco che riusciamo a fare con gratuità: questo significa rapportarsi con se stessi in modo vero, questo significa digiunare dal bisogno di visibilità. Riconoscere la propria pochezza significa mettersi in rapporto con Dio nella preghiera in modo nuovo, cioè con quell’umiltà del figlio che non porta a casa la paga al Padre, ma si aspetta giustamente tutto da lui. Riconoscere la propria pochezza significa infine essere persone che si avvicinano all’altro con carità, coscienti che noi non possiamo risolvere i problemi dell’altro, ma che certamente abbiamo la possibilità, dataci dal Padre, di amarlo. Riconoscere la propria pochezza significa dire all’altro con verità che più in là di così non ce la faccio, che sono alla frutta. Riconoscere la propria pochezza significa mettersi in un atteggiamento di richiesta: ho bisogno di ricevere e accetto questo bisogno e accetto di ricevere; dico il mio bisogno e mi apro all’accoglienza di quello che l’altro mi può dare; mi dico la mia realtà con sincerità e non mi chiedo l’impossibile.

C’è un’altra caratteristica che tocca il nostro bisogno di riconoscimento: il ricercare riconoscimento dagli altri. Se io cerco negli altri il riconoscimento, io non ne avrò mai abbastanza: gli applausi terminano in fretta e il loro effetto svanisce nel deserto della nostra esistenza. Li posso ricercare come una droga, cercando di averne sempre più e sempre più frequentemente, ma il mio cuore rimane vuoto e arido.  Tra l’altro si creerebbe una dipendenza dove io risulterò sempre schiavo del giudizio altrui e del mio tentativo di dare una buona immagine di me. Avrò il culto dell’immagine del mio io (che è idolatria) invece che della realtà di Dio.

Se questo riconoscimento, invece, lo cerco nell’Altro, allora ritrovo la mia realtà in colui che mi ama di amore eterno, ai cui occhi sono prezioso e degno di stima, addirittura un prodigio. Il riconoscimento da parte del Padre mi rende fin da ora contento di me e di lui, capace di amare il fratello come sono amato dal Padre.

Le opere, anche quelle per sé buone, sono buone “per me” solo se fatte “davanti a Dio”, per amore e in umiltà; diversamente se fatte “davanti agli uomini”, per autoaffermazione e vanagloria, riconoscenza e vanità, sono cattive.

Ti domandiamo o Padre la grazia di essere liberati dalla schiavitù degli occhi. Per noi se uno non è visto da nessuno, non esiste. La nostra identità è troppo spesso data da come l’altro ci vede. Questo ci rende schiavi dello sguardo altrui e della vana-gloria. Donaci la grazia di cercare solo il tuo sguardo, di vivere le opere buone solo davanti a Te, di cercare solo la tua gloria. Amen!


AUTORE: p. Giovanni Nicoli FONTE SITO WEB CANALE YOUTUBE FACEBOOKINSTAGRAM

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