p. Giovanni Nicoli – Commento al Vangelo del 15 Aprile 2020

Luca è giunto al termine del suo racconto e questo testo dischiude il senso di tutta la storia di Gesù. La conclusione non è mai un punto finale, ma una porta aperta che ci invita a ripensare la nostra vita alla luce di quanto raccontato e a cogliere i fili di questa trama che si intrecciano e si annodano con la nostra vita, sempre se siamo disposti a farci raggiungere dal Risorto.

“Due di loro erano in cammino”. Solo uno di loro ha un nome, l’altro sono io che sono in cammino insieme e sto facendo un percorso opposto alla salvezza, vado da Gerusalemme, luogo del più grande Amore, a Emmaus, luogo della compensazione. Nei momenti di crisi, non siamo subito disponibili a rielaborare il dolore e le ferite ed è più facile fuggire che affrontare la realtà. Se ci stacchiamo dal centro siamo persone slogate, fuori luogo. Se perdiamo Cristo, non siamo al giusto posto. Allora anche i nostri piedi percorrono strade che ci portano dove non c’è vita, la nostra bocca chiacchiera ma è muta rispetto alla vita, le nostre orecchie non ascoltano, le nostre mani sono chiuse, contratte. Vorrei allora provare a riflettere sulle varie parti del corpo che in questo brano hanno un risalto proprio perché richiamano tutti i segni che Gesù ha fatto durante la sua vita pubblica.

Se noi guardiamo i piedi di coloro che ci camminano accanto li leggiamo a partire da leggi più o meno vere o li leggiamo per il loro vero significato? Nel nostro leggere i piedi manifestiamo tutta la nostra paura e tutta la nostra tendenza a nascondere ciò che siamo realmente. Perché usiamo i piedi del fratello? A cosa ci servono e perché abbiamo bisogno di metterli in campo? Cosa ci aspettiamo e cosa cerchiamo di nascondere delle nostre paure per non manifestare la realtà vera della vita?

Non importa se i discepoli sanno camminare e riescono a camminare bene. Non ci preoccupiamo neppure della direzione scelta da loro e da noi che manifesta tutta la nostra paura, non certo il nostro desiderio di vita vera. Ciò che a noi dovrebbe interessare è dato dall’avere dei piedi finalizzati a fuggire o finalizzati a vivere, a mettere in campo la vita sempre più vera. Non possiamo essere con Cristo per fuggire e non per vivere. Ciò che ci interessa è il camminare per vivere, non per fuggire o per manifestare al meglio la nostra fuga. I nostri piedi sono stati lavati e quindi guariti da Cristo, abilitati così ad andare verso i fratelli.

I nostri occhi cosa guardano? I nostri occhi, cosa vedono? Cosa c’è che ci attrae e ci fa giudicare la realtà a partire dall’ansia che alberga i nostri sguardi?

È importante cogliere cosa cerchiamo ma è altrettanto importante cogliere cosa vediamo nella realtà che ci è data. Verso cosa è rivolto il nostro sguardo? Anche camminando con il Signore nelle vicende di ogni giorno, i nostri occhi possono essere “impediti a riconoscerlo”!

Quasi non è importante cosa vediamo. Ciò che ci interessa è la verità di ciò che vediamo al di là dalla sua natura. In ciò che noi vediamo manifestiamo ciò che è vero o manifestiamo la paura che abbiamo della realtà stessa, paura che ci porta a vedere e a leggere il tutto a partire da ciò che non è vero?

I nostri occhi sono centrali e importanti per noi perché sanno vedere al di là di ogni apparenza. È riuscire a vedere la verità di colui che incontriamo. Non siamo interessati alle verità da vendere, siamo interessati a cogliere la verità dell’essenza come incarnazione, come vita, come bellezza dello straniero, come bellezza della vecchiaia, come centralità della tristezza e della stanchezza. Non siamo interessati alla falsa novità, siamo chiamati alla bellezza della verità e alla bellezza di quello che c’è, al di là di ciò che appare bene o male. Ciò che ci importa è la verità di ciò che siamo. Cristo ha guarito i nostri occhi malati perché riescano finalmente a vedere la verità, l’Amore e li rende capaci di vedere le necessità dei fratelli.

Non possiamo vivere per la bocca: ci interessa una bocca non tanto che sappia parlare, quanto invece che sia interessata ad essere vitale e sia comunicante vita. Sapere parlare non è qualcosa di dipendente da una bocca che sa discutere, che sa avere ragione, che sa litigare, che sa chiacchierare per mettere vuoto al vivere. La nostra bocca è malata quando dice tante cose ma non dice nulla, non costruisce, è muta. Se la bocca è muta è perché non ascolta, quindi anche il nostro udito è compromesso.

Il volto scuro che è triste non si perde dietro una strada che mi parla di tante realtà, ciò che importa è che mi parli del volto del fratello. La bellezza di uno sguardo e di un volto che sa stare alla porta per guardare la bellezza delle mani di chi incontra. Ci interessano le mani non per quello che portano ma per quello che sono. Non ci interessano belle, ci interessano vere per il cuore del fratello.

Le mani che vivono questa realtà, non la realtà di accumulo, manifestano la verità di un cuore. Un cuore non attento ad avere in mano l’altro. Un cuore vero interessato a incontrare l’altro e a vivere l’altro per quello che è, grazie al suo cuore non al suo portafogli. Ritornare, in tempo di risurrezione, a cogliere la bellezza del cuore del Risorto, è sapere ritornare a cogliere la bellezza di un cuore che è bello perché squarciato per amore. Un cuore che sa rincorrere le proprie fantasie accompagnato da una testa che travalica la normalità di ogni giorno, non si fida delle fantasie, ricerca verità di bellezza da vivere.

Riconoscere che camminiamo lontani dalla vita; riconoscere il nostro parlare finalizzato a litigare. Riconoscere i nostri occhi più schiavi dei propri deliri. Riconoscere la nostra sordità come via di non cammino. La nostra vita va in direzione contraria più attenta al centro della vita.

Fonte – Scuola Apostolica


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