HomeVangelo del Giornop. Giovanni Nicoli - Commento al Vangelo del 14 Luglio 2024

p. Giovanni Nicoli – Commento al Vangelo del 14 Luglio 2024

Commento al brano del Vangelo di: Mt 9, 1-8

È l’invio in missione dei Dodici da parte di Gesù. Il testo presenta le disposizioni di Gesù ai discepoli prima del loro invio e uno stringato resoconto della loro attività missionaria. Trova realizzazione ciò che era stato preannunciato al momento della costituzione del gruppo dei Dodici. Gesù “ne costituì Dodici, perché stessero con lui e anche per mandarli a predicare con il potere di scacciare i demoni”.

Gli inviati a predicare e a far retrocedere il male curando e guarendo sono coloro che Gesù ha chiamato. La missione non è frutto dell’iniziativa personale, non è espressione del protagonismo del credente che si inventa avventuriero della fede o che intende “salvare il mondo” con le sue buone ed eroiche intenzioni e disposizioni. Il missionario è un chiamato: dev’essere una persona obbediente alla parola del Signore, disposto a rinnovare la propria chiamata giorno per giorno con l’ascolto quotidiano della parola di Dio.

La missione è riferimento a Colui che invia, prima ancora che rapporto con i destinatari dell’annuncio. Così la missione potrà essere sacramento della presenza e della venuta del Signore. Altrimenti sarà una manifestazione del protagonismo umano che, anche quando si esprime con maniere spirituali o pastorali, è in realtà profondamente mondano.

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I discepoli sono inviati “a due a due”. Il missionario non è un avventuriero isolato. Egli agisce in obbedienza a un mandato e svolge la sua missione insieme ad altri: in due ci si può proteggere meglio da pericoli. Qoelet suggeriva che è “meglio essere in due che uno solo” (Qoelet 4,9). Inoltre essere in due dona saldezza alla testimonianza: nell’Antico Testamento una testimonianza, per essere valida, si deve basare su almeno due testimoni.

Quel non essere soli, bensì due (o più), è importante perché così si può vivere la relazione, la comunione e la carità. La vita insieme degli inviati, la loro carità, la qualità della loro relazione, sono già testimonianza missionaria che rende presente Cristo a coloro che essi incontrano.

La missione non consiste in attività, in un fare per gli altri, ma in una relazione, improntata a comunione e carità, tra gli stessi missionari. La fraternità degli inviati è la prima testimonianza che certifica la bontà del loro andare e annunciare. Essere insieme in un viaggio missionario produce tensioni, mette a dura prova la propria capacità di sopportazione, di accoglienza, di ascolto, di rispetto: è ciò che può concretamente cambiare le persone. La relazione umana è elemento che aiuta il movimento di conversione reale del missionario: l’invio in missione è dunque fraternità che gli inviati sono chiamati a vivere.

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Gesù “dava loro potere sugli spiriti impuri”. Che significa? Che l’inviato, restando legato al suo Signore, può lasciar agire in lui la potenza stessa del suo Signore spandendo benedizione. Nulla di magico o di scontato in quel potere che Gesù conferisce ai suoi: a volte questo invio è coronato da successo (“Essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano”), altre volte loro falliranno e mostreranno di non essere all’altezza del compito ricevuto.

Le disposizioni che accompagnano l’invio sono estremamente rigorose e mostrano, oltre alla fraternità, la povertà. L’opera di annuncio del vangelo destinato anzitutto ai poveri deve svolgersi con sobrietà e povertà di mezzi. Il mezzo è già messaggio, e come potrebbe il vangelo rivolto a poveri, sofferenti e ultimi come destinatari privilegiati, essere annunciato con dispiegamento di mezzi e opere grandiose, ed essere affidato a messaggeri ricchi e potenti? Non sarebbe questa un’ipocrisia da parte dei missionari e un’umiliazione inflitta ai destinatari? Gesù “ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura, ma di calzare sandali e di non portare due tuniche”.

Per Gesù la missione cristiana è radicalismo evangelico. La povertà dei missionari fa emergere il fatto che la missione ha il suo senso non nel “conquistare anime” o nel far proseliti, ma nell’essere segno del Dio che viene e nell’avere come protagonista e soggetto il Risorto. Senza essere legge da applicare sempre o modello da copiare, le direttive missionarie dicono un’esigenza della missione della chiesa: ogni epoca dovrà riformulare le forme della povertà della missione. Certo, quando Paolo si imbarcherà e viaggerà in nave per raggiungere la terra europea, dovrà maneggiare denaro e pagare il biglietto: ma l’istanza di sobrietà e povertà rimane.

Pienamente parte di questa povertà è il fatto che Gesù non proibisce il superfluo, ma il necessario, ciò che potrebbe rendere la missione più efficiente, rapida, produttiva: provviste di cibo nella bisaccia, denaro nella borsa per far fronte a eventuali emergenze e bisogni che insorgessero. Gesù proibisce di avere due tuniche, proibisce il pane, il cibo povero per eccellenza. Il punto di vista di Gesù non è quello dell’efficacia operativa! Il discorso di Gesù contiene due “concessioni”: il bastone e i sandali.

Il bastone serve per sorreggersi mentre si guada un ruscello, per difendersi da un animale, per accompagnare il passo del cammino e i sandali proteggono la pianta dei piedi dai sassi, dai rovi, da altre insidie. La missione come memoria dell’esodo è cammino salvifico.

L’invio in missione crea dei testimoni: gli inviati devono far regnare su di sé le esigenze del vangelo. La loro presenza dovrà essere annuncio e trasparenza di colui che li ha inviati. La missione non dovrà mai essere “contro”, anche quando gli inviati non saranno ascoltati o accolti: chiedere conversione e far retrocedere il male operando il bene, questo è il loro compito. Proclamare le esigenze del vangelo è testimoniarne la grazia. Né i missionari potranno avanzare pretese o fare bizze: accetteranno l’ospitalità che verrà loro offerta. L’inviato del Signore non è tanto colui che dice parole ispirate, ma colui che ha “i modi del Signore” (Didaché XI,8).

Il discorso di Gesù suppone la vulnerabilità degli inviati, il fatto che la loro missione potrà incontrare ostacoli e fallire: gli inviati potranno essere non ascoltati né accolti. La loro parola potrà non convertire e non suscitare un’alzata di spalle. È come se Gesù prevenisse gli inviati avvertendoli di questa possibilità che dovranno mettere in conto. Né potranno scoraggiarsi o considerarsi falliti per questo. Il loro percorso dovrà continuare e sempre riprendere.

Non era forse questo il mandato che il Signore aveva dato al suo profeta: quello di annunciare la volontà di Dio quale che fosse la reazione, positiva o negativa, dei destinatari del messaggio? “Ascoltino o non ascoltino – dice Dio ad Ezechiele – sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro” (Ez 2,5). Potremmo parafrasare: ascoltino o non ascoltino, sapranno almeno che in mezzo a loro vi è un annunciatore della parola di Dio, un suo servo, un suo inviato.

Il messaggio dell’inviato è la sua stessa persona, è lui stesso. L’annunciatore diviene lui stesso annuncio. L’evangelizzatore diviene lui stesso vangelo.

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