Non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra! Prega il Padre tuo nel segreto. Perché la gente non veda che tu digiuni!
Una delle caratteristiche del bene e della conversione è quella della non visibilità del bene fatto, della mancanza di riscontro sociale. È nella sostanza stessa delle cose. È essenziale che il bene per essere tale vada fatto senza essere visto, o meglio, senza che ricerchi la visibilità e il riscontro sociale.
Nel momento stesso in cui il bene viene fatto per un riscontro sociale, non è più bene. Cambia volto, cambia motivazione, il cuore è tutto preso da altra preoccupazione che non è il bene. In tutto ciò che noi facciamo spontaneamente entra in gioco il bisogno di riconoscimento.
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Oggi inizia la Quaresima. Il vangelo ci riporta a tre pilastri della religiosità ebraica: la preghiera, il digiuno e l’elemosina; simboli del rapporto con Dio, con se stessi e con il fratello. Il vangelo ci riporta a questi tre pilastri perché l’essenziale per il cristiano nel rapporto con Dio, con l’altro e con se stesso è dato dalla gratuità del nostro cuore.
Non fare nulla se non sai sopportare la mancanza di riconoscenza. Il bisogno di riconoscimento che c’è in noi e che entra in gioco ogni volta che noi facciamo qualcosa di buono, rischia di intaccare il rapporto che noi abbiamo con Dio nella preghiera, che noi abbiamo con noi stessi nel digiuno, che noi abbiamo con l’altro nell’elemosina.
Il bene per essere tale non può cercare riconoscimento e visibilità. Se cerca questo non è più bene perché sposta l’attenzione, senza che ce ne accorgiamo, dal bene da farsi al “che cosa me ne viene se faccio questo” o al “che cosa me ne è venuto con tutto quello che abbiamo fatto”. Questo bisogno viene a galla con più impellenza proprio nel momento in cui siamo più deboli, nel momento in cui maggiormente avremmo bisogno del sostegno degli altri.
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Il darci da fare in una situazione con gratuità significa non aspettarsi nulla. Farlo perché ci credo e non fare nulla di più di quello in cui credo. Il ricercare l’attenzione dell’altro, che gli altri ci dicano che quello che stiamo facendo è bene, è fare un gran rumore attorno a noi, un rumore che uccide il silenzio con cui la foresta del bene cresce. È un far rumore che richiama più l’abbattimento di un albero, piuttosto che la crescita di un bosco. Questo crea intorno a noi e a quello che facciamo un vocio eccessivo che provoca mormorazione. Il male non aspetta altro che questo per impallinarci per mano di chi sta alla porta per scorgere il nostro passo falso.
L’invito che il vangelo ci fa in questa quaresima è un invito alla conversione, un invito a riconoscere il nostro bisogno di approvazione e di riconoscenza. La quaresima non è fatta per scandalizzarci delle nostre debolezze o per giudicarci in perdita; è un momento che ci può aiutare a capire le nostre debolezze e a rapportarci in modo nuovo con le stesse. Noi abbiamo bisogno di approvazione. Accogliere l’invito a pregare, a digiunare, a fare l’elemosina significa accogliere l’invito a comprendere che vivere questi tre pilastri in modo ipocrita, come spesso ci capita, non serve, non è bene, porta solo astio e risentimento.
Accogliere questo invito significa smettere le vesti di onnipotenza che spesso noi ci buttiamo addosso o gli altri ci buttano addosso. Riconoscere la propria pochezza per fare quel poco con gratuità: questo significa rapportarsi con se stessi in modo vero, questo significa digiunare dal bisogno di visibilità. Riconoscere la propria pochezza significa mettersi in rapporto con Dio nella preghiera in modo nuovo, con quell’umiltà del figlio che non porta a casa la paga al Padre, ma si aspetta tutto da lui. Riconoscere la propria pochezza significa essere persone che si avvicinano all’altro con carità, coscienti che noi non possiamo risolvere i problemi dell’altro, ma che certamente abbiamo la possibilità di amarlo. Riconoscere la pochezza significa dire all’altro con verità che più in là di così non ce la faccio. Riconoscere la pochezza significa mettersi in un atteggiamento di richiesta per ricevere: ho bisogno di ricevere e accetto questo bisogno e accetto di ricevere.
C’è un’altra caratteristica che tocca il nostro bisogno di riconoscimento: il ricercare riconoscimento dagli altri. Se io cerco negli altri il riconoscimento, io non ne avrò mai abbastanza: gli applausi terminano in fretta e il loro effetto svanisce nel deserto della nostra esistenza. Li posso ricercare come una droga, cercando di averne sempre più e sempre più frequentemente, ma il mio cuore rimane vuoto e arido. Tra l’altro si crea una dipendenza dove io risulto schiavo del giudizio altrui e del mio tentativo di dare una buona immagine di me. Avrò il culto dell’immagine (che è idolatria) del mio io invece che della realtà di Dio.
Se questo riconoscimento, invece, lo cerco nell’Altro, allora ritrovo la mia realtà in colui che mi ama di amore eterno, ai cui occhi sono prezioso e degno di stima, un prodigio. Il riconoscimento da parte del Padre mi rende contento di me e di Lui, capace di amare il fratello come sono amato dal Padre.
Le opere, anche quelle per sé buone, sono buone “per me” solo se fatte “davanti a Dio”, per amore e in umiltà; diversamente se fatte “davanti agli uomini”, per autoaffermazione e vanagloria, riconoscenza e vanità, sono cattive.
Ti domandiamo o Padre la grazia di essere liberati dalla schiavitù degli occhi. Per noi se uno non è visto da nessuno, non esiste. La nostra identità è troppo spesso data da come l’altro ci vede. Questo ci rende schiavi dello sguardo altrui e della vana-gloria.
Donaci la grazia di cercare solo il tuo sguardo, di vivere le opere buone solo davanti a Te, di cercare solo la tua gloria.
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