p. Giovanni Nicoli – Commento al Vangelo del 12 Maggio 2019 – Gv 10, 27-30

“Una voce! L’amato mio! Eccolo, viene saltando per i monti, balzando per le colline”. Una voce. Una voce chiama, una voce dice, una voce ferisce, una voce accarezza, una voce riconosce, una voce chi-ama!

Ascoltiamo volentieri una voce quando è piena, non di chiacchiere ma di amore, di affetto, di passione. Quando ci sentiamo amati, quella voce noi non la vogliamo perdere.  Una voce che sentiamo in mezzo alla folla, magari all’estero, magari inaspettata, ma riconosciuta. Subito lo sguardo si alza e cerca, cerca il conosciuto e il conoscente, cerca chi non ci fa sentire soli in mezzo ad una folla di sconosciuti.

Quando una voce è piena e non è voce da mestieranti che pretendono di aiutarti mantenendo un distacco cosiddetto professionale e ben pagato, noi quella voce la seguiamo perché dice fiducia e dice vita.

Una voce che, proprio perché piena, dice vita eterna. Una voce che posso accogliere nel vuoto delle mie giornate, nel mio animo vuoto di affetti, nella mia mente oramai stanca di pensare. Appena mi svuoto quella voce mi riempie e mi dona vita eterna.

È l’incarnazione della Voce Giovanni Battista che dice la Parola Gesù Cristo e giunge a me come dono d’amore, come vita eterna incarnata nella voce conosciuta e amante del fratello.

Ascoltare la voce del mio diletto, non è lasciarsi attraversare dalla voce dell’altro senza lasciarsi minimamente toccare. Ascoltare non può essere un dovere, ascoltare non può essere professione, ascoltare tutti non è cosa possibile se l’ascolto è amante. Proteggermi dall’ascolto è disumanizzare la mia esistenza.

Lui ci ascolta e ci conosce uno per uno. Ci conosce con la sua mano dalla quale nessuno ci può strappare. La mano aperta di fronte a chi non conosco è un atto di amore e di disponibilità. Guardare la mano dell’altro, guardare la mia mano, sentire la mano che vibra, accarezzare con la mano, tendere la mano, prendere la mano. L’ascolto che passa nella mano e la mano che diventa ascolto non è cosa da poco, è vita eterna, è vita che passa in noi e tra di noi, è Vita abbracciante di Dio Madre che avvolge tutto il creato. Questa mano ti permette di conoscere sapendo che conoscere non è sapere. Conoscere è essere aperto per accogliere e per custodire l’altro oltre ogni curiosità. Conoscere è fare all’amore e non tracciare schemi di concetti astratti. Conoscere è voce che dice parola e mano che accarezza con fedeltà. Voce e mano che vivono nel silenzio e germogliano nel tempo sprecato gratuitamente.

La sequela non è cosa meccanica e feticista come molte volte l’abbiamo descritta, la sequela è un perdersi d’amore e perdersi nell’amore.

Quell’amore che sprigiona la mano del Padre dalla quale nessuno ci può strappare. Il centro della nostra vocazione allora non sono io chiamato ma il Chiamante che si compromette con me e per me. Chi invita e chi ascolta, chi accarezza e chi fa sentire la sua voce di amore, è Colui che si compromette con me. Le mie ferite, le mie debolezze, le mie impossibilità diventano allora non giudizio ma luogo di amore, ferite attraverso cui passa Luce benevola e amante.

Chi chiama non può accettare la regola non scritta ma continuamente perpetrata di abbandonare. Un figlio non lo possiamo abbandonare; un chiamato non lo possiamo abbandonare; due sposi che si lasciano non li possiamo abbandonare; un prete che si spreta non lo possiamo trattare da lebbroso, anche uno che ha compiuto cose sgradevoli. Troppo facile abbandonare, troppo segno di non amore.

Gesù che chiama, noi che riconosciamo la sua voce, Gesù che ci prende per mano e ci porta ad andare alla mano al Padre che attende solo di abbracciarci e accarezzarci con la sua mano, ci dice fedeltà, perseveranza, desiderio di non lasciare che nulla ci strappi dalla sua mano. Questo è invito a non lasciare mai non solo la mano del Padre ma anche quella del fratello. La voce amante e conosciuta, la mano tenera e accarezzante, sono chiamata ad essere fedeli alla nostra vocazione. È chiamata a divenire padre che non lascia la mano del figlio. È chiamata a perdere la faccia pur di non perdere la mano che abbiamo stretto. La relazione non può essere abbandonata a nessuna tradizione, da nessun sistema o schema.

Questa è vita eterna: tempo condiviso con qualcuno che mi vuole bene, tempo appassionato, tempo fiducioso, tempo di ascolto, tempo di desiderio.

È tempo di camminare sulla mano aperta del Padre che ha in cuore un solo desiderio: quello di non perdermi. Figuriamoci poi se quella mano è unita alla mano della Madre. Tutto questo mi apre all’eternità che si incarna in parole di relazione amante, che si incarna sulle linee tracciate da mani callose che mi accarezzano con tutto l’affetto di cui sono piene, perché quei calli sono calli di amore che sono cresciuti su mani che hanno faticato e sofferto perché io non cadessi nella mancanza di nutrimento di amore. Quelle mani d’amore da cui nulla potrai mai strapparci perché amanti e noi sappiamo che forte come la morte è l’amore.

Commento a cura di p. Giovanni Nicoli.

Fonte – Scuola Apostolica Sacro Cuore

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Alle mie pecore io do la vita eterna.

Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv 10, 27-30

In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono.

Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano.
Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre.
Io e il Padre siamo una cosa sola».

C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.

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