Le cose stanno lì e ci parlano, con la loro evidenza, semplicità e durezza. Le persone possono nascondersi, cambiare, mentire. Invece le cose, gli oggetti, i gesti ci ricordano in maniera impietosa come li abbiamo utilizzati, cosa ne abbiamo fatto. Sono le tracce della storia. Per questo ho pensato di ripercorrere il racconto della passione di Gesù lasciando parlare le cose.
Non è un’idea originale. Gli strumenti della passione, quelli che la tradizione ha chiamato arma Christi, sono stati oggetto di grande devozione. Alcuni di questi, secondo la tradizione, furono ritrovati dall’imperatrice Elena a Gerusalemme. Ma anche in tempi più recenti, molti canti popolari, come il Pianto delle zitelle al santuario di Vallepietra, raccontano questa storia attraverso le cose, involontarie protagoniste, innocenti testimoni.
Proviamo ad ascoltarle, lasciandole parlare. Non le nominerò, perché sarebbe già da parte mia un modo per impossessarmene e trasformarle in oggetto. Alcune forse si faranno capire meglio, altre meno:
«Passiamo di mano in mano. Non bastiamo mai. La gente vuole sempre qualcos’altro. Del resto, per quanto preziose, non serviamo a niente. Ci usano per comprare il pane, ma anche per tradire. Per fare l’elemosina, ma anche per coprire i crimini. Quella volta ci misero in un sacchetto e ci consegnarono nelle mani di Giuda. Mani tremanti. E dopo un po’ ci ritrovammo sbattute e disperse sul pavimento della casa da cui eravamo uscite. Un rumore sordo. Ci coprirono di disprezzo. Per la prima volta nessuno ci voleva più. Eppure non era colpa nostra se eravamo state usate per tradire un amico. Ci raccolsero con i piedi e diventammo merce di scambio».
«Doveva essere una sera importante quella. Mi avevano comprato al mattino. Ero fresco, appena sfornato. E mi ritrovai spezzato la sera. Ma lentamente. Mi ritrovai sollevato e fermato a mezz’aria, tra le mani di Giuda, mentre mi portava alla bocca. Per un attimo, Giuda rimase immobile, bloccato, inchiodato dalle parole di Gesù. Tutti gli sguardi furono su di me. Il vino, nel quale ero stato intinto, mi avvolgeva. Non c’era aria di festa quella sera, ma un velo di tristezza. Sguardi di sospetto. Mi ritrovai da solo. Lasciato sul tavolo ad aspettare l’alba. Tutti erano usciti, sebbene fosse notte».
«Furtivo, appassionato, a volte formale, ma mai avrei pensato di diventare segnale di un tradimento. Le labbra di Giuda erano gelide, la guancia di Gesù ferma e sincera. Il maestro mi sentì come una lama, eppure si lasciò tagliare senza arretrare. Pensavo di parlare solo d’amore e invece sono diventato ipocrita, falso, ingrato. Vi prego, rimettetemi nelle poesie degli amanti, nelle preghiere dei devoti, nelle paure delle mamme, ma non fate di me la fine di un amore».
«Sì, ne ho uccisi tanti. Me ne date la colpa, ma c’è chi ferisce più di me: le parole, le assenze, i giudizi, gli sguardi… C’è chi mi tiene nascosta, per tirarmi fuori alla prima occasione. Quando si sentono minacciati, quando sono spaventati, ma anche quando cercano giustizia. Proprio come quella sera, nel giardino. Vorrei essere dimenticata, ma il cuore dell’uomo non trova pace. Vorrei essere trasformata, ma a cosa può servire il ferro vecchio? Quella notte, il maestro riparò il danno del mio colpo. Pensavo di essere invincibile e invece fui vinta dall’amore».
«Non è colpa mia se all’alba, quando il sole spunta, mi viene voglia di cantare. È bello il sole, mi scalda, mi piace quando le cose possono ricominciare, quando la notte è ormai passata. E allora io mi metto a cantare. Grido, esulto, vorrei che tutti si svegliassero per vedere il giorno che ricomincia. La gente invece si disturba, mi maledice, preferiscono restare nel buio, non vogliono ricominciare. Forse sono stanchi o pigri o spaventati da quello che ci sarà. Anche Pietro quella notte si è meravigliato del mio canto. È rimasto impietrito. Ma si è reso conto che qualcosa di nuovo stava accadendo anche nella sua vita».
«Mi hanno buttata qui, in questo catino. Non mi sono mai ritrovata davanti a tutta questa gente. Che posto insolito. Su una tribuna, sulla piazza. Pilato si è già lavato questa mattina, dunque perché mi hanno riportato qui, davanti a lui? Posso lavare le mani, ma non posso lavare la coscienza. Che illusione? Posso però, caro Pilato, mostrarti la tua faccia, mentre ti pieghi per immergere le tue mani dentro di me. Anche Gesù, ieri sera, ha visto il suo volto provato e triste, quando si è chinato per lavare i piedi dei suoi amici. Sì, buttatemi pure via, ma io posso portare via la polvere della terra, non il peccato del vostro cuore».
«Ci mancavo solo io. Gli hanno messo in mano una canna e lo hanno coperto con una specie di mantello. Non sono abituata a stare in testa alla gente per gioco. Sono preziosa, pretendo rispetto. Ma quella volta, sulla testa di Gesù, non ero d’oro e non avevo diamanti incastonati ben in mostra. No, ero semplice, fatta di spine. Che strano: invece di portare onore, ho portato dolore, invece di conferire potere, sono diventata oggetto di scherno. Eppure non mi sono mai sentita così preziosa e invincibile. Gli uomini si mettono in testa idee strane su se stessi, si travestono, indossano abiti di scena. Ma quel giorno ho imparato che la dignità di ciascuno si nasconde nel profondo. Il potere di ciascuno è nell’abisso del cuore, non negli abiti che indossa».
«Sono pesante. Se avessi potuto piangere, avrei riempito di lacrime la strada che porta verso il Calvario. Ero lì, sulle sue spalle. Avrei voluto farmi leggera, ma ero pesante. L’ho schiacciato. L’ho buttato a terra. Perdonatemi se continuo a gravare sulle vostre spalle. Vorrei scendere, farmi da parte, ma mi hanno detto che faccio parte dell’esistenza. Alla fine mi ritrovo sempre da sola, perché tutti fuggono. Lo spettacolo non dura molto. Poi resto lì. Sotto la pioggia, nella solitudine, nel silenzio. Accolgo gli ultimi gemiti, le grida di dolore. Il corpo mi resta attaccato, nell’inutile tentativo di cadere. Solo la pietà di qualcun altro può liberarmi da quella presenza dolorosa. Venite, vi prego, togliete questi chiodi. Liberate questo corpo. Non sono io la fine della storia».
«Mi dicono che a volte la vita mi somiglia: senza luce, senza aria, silenzio… mi hanno chiuso con una pietra enorme. Nessuno può passare. Non c’è alcuna speranza di cambiare. Sarà così per sempre. Ma io sono così. È la mia natura. Ci sto bene. Non ho alcuna voglia di cambiare. Quello che avviene fuori non mi interessa. Io vedo solo quello che si consuma: il corpo, la polvere…il resto non è qui. Forse credevi che io mi impadronissi della vita. No, purtroppo no, la vita qui non è mai stata trattenuta! Qui c’è il vuoto, l’assenza, la vita è altrove».
Leggersi dentro
Guardandomi intorno, quali cose oggi mi parlano della passione di Gesù?
Qual è il cammino di conversione che sono chiamato a percorrere?
P. Gaetano Piccolo S.I.
Compagnia di Gesù (Societas Iesu) – Fonte