Mettere etichette
Avete mai fatto caso alle simpatie o antipatie immediate che nascono in noi quando incontriamo una persona per la prima volta? In genere ci facciamo un’idea di qualcuno a prima vista, in base alle nostre esperienze, ai ricordi, alle paure o ai vantaggi che ne possiamo trarre. Diciamo pure che tendiamo per lo più a mettere etichette sulle persone. È un principio di economia, ci serve a risparmiare energie. Classifichiamo le persone, le incaselliamo, con l’illusione di poterle gestire meglio. Questo atteggiamento diventa molte volte una forma di violenza e di manipolazione perché non lasciamo all’altro la libertà di crescere e di esprimersi, ma lo costringiamo a stare dentro i nostri schemi.
Con gli altri
Questa dinamica è presente molte volte anche negli ambienti più familiari: avviene per esempio all’interno di una coppia, dove ogni sorpresa o novità è vista come strana, insolita, degna di sospetto. Accade persino nel rapporto tra genitori e figli: i genitori si fanno molte volte un’idea dei figli e non sono disposti a ricredersi. Per quanto un figlio cerchi di smentire quell’idea, un genitore purtroppo farà molta fatica ad ammetterlo. È proprio così che si tarpano le ali a chi sta cercando di crescere.
Con Dio
Questa tendenza a mettere etichette si dispiega in realtà anche con Dio: pensiamo di conoscerlo, non gli permettiamo più di sorprenderci, lo diamo per scontato. Può capitare a chi vive una fede stanca, ripetitiva, che ha perso il gusto di cercare, ma capita anche più spesso a chi si forma a un’immagine stereotipata e folcloristica di Dio. Al contrario chi si avvicina a Dio con onestà e desiderio si accorge di non conoscerlo mai abbastanza: Dio sorprende e si sottrae a ogni etichetta per quanto brillante possa essere.
La crisi dell’incomprensione
Il capitolo 6 del Vangelo di Marco, che cominciamo a leggere in questa domenica, mette proprio in evidenza questa delusione nella conoscenza di Gesù. Questo capitolo viene infatti a volte indicato come crisi galilaica. Proprio in Galilea, cioè nella sua terra, nel luogo più familiare, Gesù sperimenta l’incomprensione. La gente pensa di conoscerlo, lo hanno visto crescere, e per questo sono refrattari a lasciarsi sorprendere e guarire da lui.
Non possiamo non vedere in questa dinamica qualcosa che provoca profondamente proprio coloro che di solito sono familiari di Dio: noi che lo frequentiamo, che viviamo con lui, che gli siamo più vicini, molte volte siamo quelli che fanno più fatica a lasciarlo operare in modo nuovo. Forse ci aspettiamo di vedere l’azione di Dio sempre secondo i nostri parametri, quelli di cui abbiamo fatto esperienza, quelli che conosciamo meglio.
Si tratta anche di una provocazione per una cultura tradizionalmente cristiana che è entrata in crisi, proprio come sono entrati in crisi i concittadini di Gesù: si tratta sempre di una cultura che non è disponibile ad ascoltare una parola profetica, cioè una parola nuova che scomoda. Vorremmo piuttosto essere confermati nelle nostre idee e nelle nostre sicurezze. Ma proprio quando la fede diventa accomodamento e tranquillità vuol dire che ha smesso di essere autentica.
Cosa ci aspettiamo da Dio?
Gesù ci fa vedere in questi versetti come Dio entra nella normalità della condizione umana per scuoterla: entra nella sinagoga, legge la parola, si mette in relazione, si prende cura delle malattie dell’uomo. Eppure questo non ci basta. Quale immagine di Dio stanno cercando i concittadini di Gesù? Cosa si aspettano da Dio? In che modo Dio dovrebbe rivelarsi per dargli credito?
Qui Gesù prende atto del suo fallimento apostolico: la gente è talmente incredula da impedirgli di agire. Sì, è la nostra mancanza di fede che impedisce a Dio di agire. Gesù non ignora questo fallimento. Si rende conto che il suo messaggio non è passato. Per questo si ferma, si interroga, prova a capire che cosa non ha funzionato. Cercherà di capire cosa pensa le gente di lui e cosa si aspetta.
Lasciarsi interrogare
Forse anche noi dovremmo confrontarci con questo modo di reagire di Gesù: spesso infatti tendiamo a negare il fallimento, non ce ne assumiamo la responsabilità, non ci poniamo delle domande per capire come modificare la nostra comunicazione. Succede per i predicatori, succede per i genitori, ma anche per chi, più in generale, ha ruoli di responsabilità. A dire il vero, accade in ogni tipo di relazione, dove capita di non sentirsi compresi, dal momento che possiamo aver fallito nel nostro tentativo di comunicare qualcosa di diverso. Questo fallimento non va occultato, ma va guardato e usato per trasformare il nostro modo di veicolare quello che ci sta a cuore.
Ogni volta che non siamo disposti a metterci in discussione, probabilmente stiamo perdendo un’occasione di crescita e di cambiamento.
Leggersi dentro
- Sono disposto a lasciarmi sorprendere dalle persone o tendo a mettere etichette irremovibili?
- Sono disposto a lasciarmi sorprendere da Dio o lo cerco solo in contesti scontati e predefiniti?
P. Gaetano Piccolo S.I.
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