Quello che sono
Ne Il cammino dell’uomo, Buber riporta questo racconto: «Rabbi Zusya diceva, poco prima di morire: “Nel mondo che viene, la domanda che mi verrà rivolta non è: Perché non sei stato Mosè? No, la domanda che mi verrà rivolta è: Perché non sei stato Zusya?».
In altre parole, ci verrà chiesto se siamo stati quello che eravamo, se abbiamo valorizzato fino in fondo le nostre potenzialità. Non si tratta di obiettivi da raggiungere, di traguardi da tagliare o di cose da possedere. Si tratta piuttosto di essere, di vivere quello che siamo. A. Maslow parlerebbe forse della nostra autorealizzazione, del cammino della vita come risposta alla domanda che ci abita.
- Pubblicità -
Possiamo intendere in tal senso questo appello di Gesù, nel Vangelo di questa domenica, a essere fedeli nel poco, è la fedeltà a noi stessi. È un invito a non tradire noi stessi, rinnegando, mettendo da parte o nascondendo la bellezza di quello che siamo.
Competizione
La bellezza del resto non si misura con il metro della quantità. Le cose più importanti non si lasciano pesare o quantificare. Al contrario, noi tendiamo continuamente a operare confronti e a valutare le cose in base al quanto. Non ci chiediamo cosa posso fare di quello che c’è, ma perché io non ho quanto ha l’altro!
- Pubblicità -
Forse non a caso, Gesù usa in questa parabola il linguaggio dell’economia: parla di soldi, di banche, di interessi. Un linguaggio che ci fa paura perché ci immette immediatamente nella logica del confronto e del rischio. Noi infatti guardiamo tutto con gli occhi del guadagno e con la paura di perdere. La vita diventa così un tentativo per evitare che il mondo dichiari il nostro fallimento.
Quando valuti tutto e tutti attraverso la lente del tornaconto personale, anche le relazioni diventano commerciali: l’altro diventa l’avversario, il competitor, oppure il cliente da sfruttare. In questo modo ci sfugge il valore di quello che ci è stato affidato. È un po’ come non accorgersi che un talento che sembra soltanto uno equivale in realtà a seimila giornate di lavoro! Occultiamo la ricchezza che è stata posta nelle nostre mani, perché siamo troppo intenti a guardare ai talenti che sono stati messi nelle mani degli altri!
La paura
Quando viviamo tutto nella dinamica della competizione e del confronto, può nascere facilmente la paura di perdere. La paura è un meccanismo naturale, comprensibile, ci avvisa che siamo di fronte a un pericolo. È vero del resto che ogni investimento non è mai del tutto sicuro. La vita è sempre un rischio. La paura però diventa negativa quando ci blocca, quando non scegliamo più ovvero quando non viviamo più. La paura di sbagliare, la paura di essere giudicati, la paura di essere presi in giro, ci porta a ingigantire gli ostacoli e ci rende irrazionali.
Il servo della parabola, che ha ricevuto un solo talento, non solo non vive più, ma non è capace di assumersi la responsabilità della sua scelta. Scarica la colpa sul padrone, che da uomo generoso viene trasformato, nell’immaginazione del servo, in un uomo duro e spietato. La paura non ci fa vedere più le cose per come stanno. È quello che avviene in noi anche relativamente all’immagine di Dio: per non impegnarci, tendiamo ad attribuire a Dio una mancanza di generosità o un atteggiamento punitivo. Il servo sta dicendo che la causa del suo comportamento non è la sua mancanza di coraggio, ma l’atteggiamento degli altri – e di Dio – nei suoi confronti.
Seppellirsi
Il servo della parabola proprio per questo motivo preferisce rinunciare a vivere, abdica alle sue responsabilità: andando a nascondere il talento, sta dicendo, secondo la legge rabbinica, che egli non è responsabile di quella somma. È come se il servo fosse andato a seppellire se stesso. È l’immagine di tutte quelle vite seppellite, forse perché troppo attente a guardarsi intorno, forse troppo schiave della competizione e del confronto. Una vita vale e basta, non può essere mai sottomessa a una valutazione quantitativa! È una vita! Ha semplicemente senso.
Si capisce così anche perché a chi ha sarà dato e a chi non ha sarà tolto quello che ha, perché colui che ha è quello che ha deciso di vivere e il secondo invece ha già rinunciato. Se provi a vivere e ad amare, la tua vita fiorisce sempre di più. Se rinunci a vivere e ad amare, la tua vita appassisce e muore.
Giocarsi
Non importa allora quanti talenti ci sono stati dati, ciò che conta è conoscere quello che sono e provare a valorizzarlo per realizzare la mia natura. Molte volte non ci preoccupiamo neanche di conoscere quello che c’è, perché abbiamo già decretato che è poco e che gli altri hanno avuto di più. Quando si seppellisce il talento, quando si rinuncia a vivere, ci buttiamo da soli nelle tenebre e nella tristezza: il servo inutile, quello che ha sprecato la vita, si butta da solo nel pianto e nel dolore. Al padrone non interessava il guadagno, ma la disponibilità a valorizzare il talento. E non devi farlo neanche per lui, ma semplicemente per essere felice.
Leggersi dentro
- Sei consapevole delle tue risorse o sei solo preoccupato del confronto con gli altri?
- In che modo stai cercando di valorizzare quello che sei?
Per gentile concessione di P. Gaetano Piccolo S.I.
Fonte