Il linguaggio dell’amore
L’amore ha bisogno di strade su cui camminare. Non esiste l’amore in astratto. L’amore ha bisogno di un linguaggio, ha bisogno di gesti attraverso i quali farsi vedere. Già sant’Ignazio diceva, negli Esercizi spirituali [230], che l’amore è da porre più nei fatti che nelle parole. L’amore ha bisogno di uno spazio in cui collocarsi, come un giardino che fiorisce dentro i suoi confini. Al di fuori di quello spazio c’è polvere ed erbacce, c’è la terra di nessuno, la strada calpestata dai passanti.
Ogni amore ha bisogno di criteri, di canali attraverso cui passare, ha bisogno della sua liturgia. È proprio su questo modello umano che Dio costruisce il suo amore per noi: l’uomo, tratto dalla polvere, riceve forma ed è collocato in un giardino. E in quel giardino ci sono degli alberi che delimitano uno spazio, sono punti di riferimento per evitare che l’uomo si perda nello spazio della relazione.
Questa immagine racconta la storia di Israele, tirato fuori dalla schiavitù dell’Egitto e rapito in una storia d’amore. Per vivere quella relazione c’è bisogno di criteri, di concretezza, di gesti: per questo Dio dona al popolo delle parole che possano aiutarlo a capire come rimanere nell’amore con Lui.
La relazione con Gesù
Nel testo del Vangelo di questa domenica, Gesù ripete ancora il suo desiderio di un amore vero, che non si perde nei proclami romantici, ma sceglie la concretezza dei gesti: i comandamenti sono i confini che ci aiutano a rimanere dentro il giardino, ci permettono di riconoscere quello spazio, di sapere che stiamo dentro la relazione, ci aiutano a non s-confinare, cioè a non perderci.
Come ogni relazione, anche quella dei discepoli con Gesù deve affrontare il cambiamento. Ci sono sempre passaggi importanti che ci chiedono di vivere l’amore in un modo nuovo. La relazione dei discepoli con Gesù deve passare dalla contingenza del tempo, della storia vissuta con lui sulle strade d’Israele, all’eternità del cuore.
Ci accorgiamo che un amore è autentico quando nessuna distanza lo distrugge: solo se la comunione è autentica, l’amore resta e supera ogni separazione.
Rimanere orfani?
I discepoli si sono trovati davanti all’esperienza dolorosa di rimanere orfani. Hanno dovuto affrontare la paura di perdere Gesù, di non averlo più accanto, proprio come chi perde il padre, l’amico o il maestro. Ma proprio grazie all’esperienza dei primi discepoli, noi possiamo essere certi che la presenza del Signore non viene mai meno: «non vi lascio orfani» (Gv 20,18) è la promessa che Gesù fa al credente di ogni tempo.
Diventare orfani significa vivere l’esperienza del vuoto, significa rimanere sospesi. Quando si rimane orfani di un genitore si apre davanti a noi anche una possibilità di crescita: è il momento in cui, come dice Recalcati, possiamo veramente diventare eredi, diventiamo adulti, possiamo assumere responsabilmente tutto quello che il padre ci ha lasciato.
Accogliere un dono senza fine
Questo amore così profondo non può essere visto da tutti: il mondo si ferma alla superficialità delle cose, non arriva a scrutare il cuore. Per questo il mondo non è capace di vedere la presenza di Dio, che pure è nascosta in ogni cosa. Chi guarda l’immediatezza del piacere, della soddisfazione e della rivendicazione non coglie la profondità della comunione. Dio parla un altro linguaggio, che si esprime nella proposizione in: «io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi» (Gv 14,20). Chi è attento all’esteriorità, all’immagine, non potrà mai assaporare la bellezza dell’intimità di Dio custodita nel cuore.
Leggersi dentro
- Attraverso quali segni riconosci in te la presenza dello Spirito?
- Che cosa ti aiuta a custodire la relazione d’amore con Dio?
P. Gaetano Piccolo S.I.
Compagnia di Gesù (Societas Iesu) – Fonte