Una parola nuova
Intorno al IV-V secolo d.C., un certo Romulus si trovò a tradurre dal greco in latino una favola di Esopo, nella quale si raccontava di un tale, condannato a morte, al quale era stata condonata la pena. Come tradurre quel dono della vita che interrompeva il corso ordinario della giustizia? Si poteva parlare semplicemente di un dono? Romulus si rese conto di trovarsi davanti a un dono eccezionale, straordinario, che non poteva essere equiparato a qualunque altro dono. Per questo coniò per la prima volta la parola ‘perdono’. Fin dall’inizio, quindi, il termine ‘perdono’ nasce per indicare qualcosa che va oltre la giustizia o il rispetto delle regole. Il perdono è tale se è immeritato: avrei dovuto morire e invece mi ritrovo salvato. L’origine del termine chiarisce anche perché nel perdono sia implicito il dono di una nuova possibilità di vita: si tratta veramente di ridonare la vita. Ma questo non vale solo per chi riceve il perdono: il perdono ridà vita anche a me che lo offro, perché libera dal rancore che uccide.
Servi insieme
Capiamo allora perché sia così difficile trovarsi veramente davanti a un’esperienza di perdono, eppure la parabola che Gesù racconta in questi versetti del Vangelo di Matteo ci spiega anche perché la comunità può sopravvivere solo se si confronta continuamente con l’esigenza del perdono. Le relazioni interpersonali muoiono quando non ci si perdona più. Abbiamo continuamente bisogno di comprendere l’altro per dargli una nuova possibilità. Non a caso, Matteo usa un termine originale per indicare i compagni protagonisti della vicenda, non solo i due servi indebitati, ma anche gli altri spettatori della scena, sono chiamati servi-insieme, con un unico termine, per indicare la nostra identità comune di gente a servizio della vita, persone legate indissolubilmente l’una all’altra. Quando manca il perdono si spezza un legame vitale: non siamo più insieme come dovremmo essere.
In coscienza
Pietro, che pone la domanda iniziale e che dà a Gesù l’occasione di raccontare la parabola, rappresenta la voce della coscienza, la coscienza che vuole sentirsi a posto, che non vuole essere messa continuamente in discussione. Pietro vuole quantificare l’amore, vuole un limite alla misericordia, vuole una misura che gli permetta di sentirsi giusto. Ad un certo punto vorrebbe dire ‘basta! Ho fatto quello che dovevo fare!’. Gesù gli insegna invece che il perdono non ha misura, proprio perché non c’è un momento in cui smettiamo di avere bisogno di perdonarci reciprocamente.
Mi ricordo
La vita è continuamente un appello al perdono. Ma questa forza di perdonare la possiamo ritrovare solo se facciamo memoria di tutte le volte che noi stessi, nel segreto, siamo stati perdonati dal Padre nostro. Ciascuno sa nel suo cuore quale sia il grande debito che gli è stato condonato. Al primo servo della parabola infatti viene condonato un debito altissimo: diecimila talenti! Pensiamo solo al fatto che un talento equivaleva a 25Kg d’argento e che nella parabola dei talenti al primo servo vengono affidati cinque talenti. Al contrario, il secondo servo ha contratto un debito non particolarmente ingente: cento denari, poco più di tre mesi di lavoro, visto che un denaro era il salario medio per una giornata di lavoro.
Un rischio
Il servo perdonato, ma incapace di misericordia non conosce la pazienza di cui egli stesso ha goduto. Non sa aspettare il cambiamento del suo fratello, non sa dare tempo, non sa offrire una nuova possibilità. Il perdono è sempre un rischio: non sappiamo mai se l’altro lo accoglierà, se ne farà buon uso, se saprà ricambiare, ma tutto questo non riguarda più colui che offre il perdono. Il perdono è tale proprio quando è totalmente gratuito. Il perdono è inevitabilmente un rischio! Se il perdono diventa calcolo, allora non può più essere chiamato così.
Nella comunità
La parabola raccontata da Gesù mette anche in evidenza che il perdono non è solo una questione personale, ma ricade sulla comunità. Gesù vuole aiutare a riflettere sulle relazioni all’interno della comunità: gli altri servi che vedono la scena non restano indifferenti davanti all’ingiustizia, ma pregano il padrone affinché possa rimettersi in moto il processo della misericordia. Chi non è capace di perdonare distrugge la vita della comunità. Oggi ci accorgiamo ancora di più come la mancanza di misericordia, sostituita dal giudizio e dalla critica, stia distruggendo il tessuto sociale. Ma purtroppo questo accade quando cominciamo a dimenticare, quando sappiamo vedere solo l’errore dell’altro e non ci ricordiamo più di quante volte noi stessi avremmo dovuto morire e ci ritroviamo invece ancora in vita.
Leggersi dentro
- Sei capace di fare memoria di tutte le volte in cui sei stato perdonato?
- Sei disponibile a comprendere chi ha sbagliato e a dargli tempo per cambiare?
P. Gaetano Piccolo S.I.
Compagnia di Gesù (Societas Iesu) – Fonte