p. Gaetano Piccolo S.I. – Commento al Vangelo di domenica 1 Ottobre 2023

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Un rapporto complesso

Il rapporto con il padre (quando c’è, visto che oggi dobbiamo fare i conti anche con questa assenza sempre più frequente) ha un carattere fondamentale, misterioso e in parte complicato. Non a caso, da Sofocle a Freud, Edipo è diventato l’emblema del figlio che cerca, anche inconsapevolmente, il proprio spazio davanti alla figura ingombrante del padre.

Il rapporto è complicato perché, rispetto al padre, il figlio cerca sì il proprio spazio, per poi passare però ad imitarlo (atteggiamento maschile) o a ricercare in lui sicurezza e stabilità (atteggiamento femminile). Il rapporto con il padre è complesso anche perché, come in questo testo del Vangelo di Matteo, il padre rappresenta la norma, la parola che mette confini.

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Il padre dunque non è solo il genitore, ma rappresenta, soprattutto nel contesto ebraico, la legge che custodisce e indica la via da percorrere, quello che si deve fare, la Torah appunto. Il rapporto con il padre viene ad essere nel contesto evangelico un’immagine del rapporto con la Legge.

Adattamento e trasgressione

Come nel rapporto con il padre, così nel rapporto con la Legge, ovvero con la Parola di Dio, possiamo avere un atteggiamento di obbedienza supina, quando cioè il nostro comportamento è guidato dalle paure per le conseguenze di una possibile disobbedienza, oppure possiamo vivere momenti di trasgressione che a volte ci servono per ritrovare la nostra identità.

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La trasgressione fa parte di ogni cammino di crescita: il bambino a un certo punto comincia a dire no, anche se non ne ha motivo, solo per segnare una differenza tra sé e il mondo, in modo da affermare la sua identità. In maniera simile, l’adolescente sperimenta la trasgressione come momento di passaggio per conoscere i suoi limiti e le sue risorse.

I due figli di cui parla la parabola evangelica esprimono dunque due atteggiamenti che convivono in noi o anche due reazioni che si alternano nella nostra vita rispetto al bene o alla volontà di Dio. In alcuni prevale il bambino adattato che non ha il coraggio di disobbedire, in altri emerge il bambino ribelle che vuole affermare se stesso.

La verità che rende liberi

Il primo figlio di cui parla la parabola è capace di riconoscere quello che sente dentro: di andare nella vigna non ha voglia! È un uomo che ha la capacità di esprimere la verità di quello che attraversa il suo cuore. È capace però anche di riconoscere che quello che sente non è tutto, riesce a non mettersi al centro del mondo. Riconosce che c’è anche altro: c’è il desiderio del padre, c’è probabilmente un’urgenza, c’è una responsabilità, c’è la vita di altri che forse dipendono dal suo lavoro in quel giorno.

È importante riconoscere quello che sentiamo, ma non può diventare l’unico criterio delle nostre azioni! Potremmo anche dire che questo figlio è un uomo libero, capace di cambiare il suo proposito perché trova un bene più grande, è flessibile, sa rinunciare alla sua prima reazione emotiva.

Ipocrisia e paura

Il secondo figlio è abitato dall’ipocrisia. Somiglia a noi quando nascondiamo quello che sentiamo dentro. Ci nascondiamo per paura, per il giudizio, ci nascondiamo forse perché non vogliamo deludere o perché temiamo le reazioni degli altri. La cosa più grave è la finzione: questo figlio dà un’immagine di sé non vera. Può darsi anche che sia un uomo distratto: potrebbe infatti aver dato la sua disponibilità, ma potrebbe poi essersene dimenticato, magari si è lanciato avanti, senza rendersi troppo conto delle conseguenze e degli impegni che si era preso.

Veri e aperti

La parola del padre dunque rappresenta ciò che sta fuori di noi e che ci richiama alla responsabilità. Se da una parte è importante essere autocentrati, cioè prendere in autonomia le nostre decisioni, senza lasciarsi influenzare da condizionamenti esterni, è anche vero che non bisogna assolutizzare il proprio mondo interiore. Occorre tener conto anche delle esigenze degli altri e dei doveri che ci vengono dalla convivenza con gli altri.

Le persone libere

Possiamo ora comprendere anche il riferimento ai pubblicani e alle prostitute suggerito da Gesù: essi sono coloro che, anche volendo, non si possono nascondere. Il loro peccato è evidente, dunque non possono fare altro che riconoscerlo, non c’è per loro la possibilità di fingere o di mostrare ipocritamente un’immagine che non sarebbe sostenibile.

In questo senso, pubblicani e prostitute sono paradossalmente più liberi. Sono nella condizione di intraprendere più facilmente un cammino di riconciliazione con la propria vita. Il nostro problema infatti è soprattutto quello di fare fatica a riconoscere e ad ammettere a noi stessi il nostro peccato e i nostri limiti.

Il ruolo che rende ipocriti

Siamo infatti molto più spesso come i sacerdoti e gli anziani, irrigiditi nel loro ruolo. Spesso quel ruolo li condanna all’ipocrisia, non lascia loro spazio per vedere quello che realmente si muove nel loro cuore. Agiscono, come talvolta anche noi, solo per proteggere un’immagine sociale incoerente e falsa. Dietro quell’immagine c’è ben altro, ma non riescono ad ammetterlo.

Questa preoccupazione che porta a nascondere crea, ovviamente, profonda tensione e genera un conflitto che emerge in molti atteggiamenti di rigidità e in comportamenti ossessivi. La grazia dunque che potremmo chiedere in questa domenica è di crescere in una profonda integrazione di quello che ci abita affinché possiamo diventare sempre più coerenti e veri.

Leggersi dentro

  • Fai le cose per paura o per convinzione?
  • Nel tuo rapporto con Dio sei capace di fare verità?

per gentile concessione di P. Gaetano Piccolo S.I.
Fonte