p. Fernando Armellini – Commento al Vangelo del 6 Dicembre 2020

Padre Fernando Armellini, biblista Dehoniano, commenta il Vangelo di domenica 6 dicembre 2020.
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Cerca vie nuove

Un giorno i discepoli di un rabbino irruppero nell’aula e, raggianti, riferirono la lieta notizia: “È giunto il messia!”. Senza scomporsi, il maestro si accostò alla finestra, volse attorno lo sguardo e osservò la gente che, come ogni mattino, si muoveva frettolosa lungo le strade; i poveri ai crocicchi chiedevano l’elemosina, i padroni inveivano contro i servi, i bambini piangevano, i ciechi erano condotti per mano, gli sciancati faticavano a camminare. Tornò a sedersi, invitò gli alunni a continuare a studiare, poi soggiunse: “Come può essere venuto il messia se nel mondo tutto continua come prima?”.

Quando si avvereranno gli oracoli dei profeti? Fino a quando dovremo attendere “nuovi cieli e una nuova terra in cui avrà stabile dimora la giustizia” (2 Pt 3,13)?

La storia sembra deporre contro le promesse del Signore, pare una smentita della fede cristiana in Gesù messia. Dopo millenni, non sono scomparse “le voci di pianto e le grida di angoscia” (Is 65,19), le spade non sono state cambiate in vomeri né le lance in falci (Is 2,4).

 I dubbi sulla fedeltà di Dio all’impegno preso di far sorgere un nuovo mondo compaiono quando si dimentica che i tempi degli innamorati non sono scanditi dall’orologio, ma dall’amore: un’ora passa in un istante e l’attimo può sembrare una vita. Chi ama è paziente e sa attendere. Per avere Rachele, Giacobbe servì il suocero per sette anni e “gli parvero pochi giorni tanto era il suo amore per lei” (Gn 29,20).

Anche il Signore aspetta che l’uomo gli spalanchi la via del suo cuore e, per lui, “mille anni” di attesa “sono come un giorno solo” (2 Pt 3,8).

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Signore, fa che abbandoniamo le strade antiche, insegnaci a prepararti una via nuova”.

Prima lettura (Is 40,1-5.9-11)

 1 “Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio.
2 Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele
che è finita la sua schiavitù, è stata scontata la sua iniquità,
perché ha ricevuto dalla mano del Signore
doppio castigo per tutti i suoi peccati”.
3 Una voce grida:
“Nel deserto preparate la via al Signore,
appianate nella steppa la strada per il nostro Dio.
4 Ogni valle sia colmata, ogni monte e colle siano abbassati;
il terreno accidentato si trasformi in piano
e quello scosceso in pianura.
5 Allora si rivelerà la gloria del Signore e ogni uomo la vedrà,
poiché la bocca del Signore ha parlato”.
9 Sali su un alto monte, tu che rechi liete notizie in Sion;
alza la voce con forza, tu che rechi liete notizie in Gerusalemme.
Alza la voce, non temere; annunzia alle città di Giuda:
“Ecco il vostro Dio! 10 Ecco, il Signore Dio viene con potenza,
con il braccio egli detiene il dominio.
Ecco, egli ha con sé il premio e i suoi trofei lo precedono.
11 Come un pastore egli fa pascolare il gregge
e con il suo braccio lo raduna;
porta gli agnellini sul seno e conduce pian piano le pecore madri”.

I primi anni d’esilio a Babilonia furono difficili, ma, in seguito, gli Israeliti si adattarono alla loro nuova condizione e molti riuscirono addirittura a raggiungere posizioni sociali prestigiose.

Dopo una quarantina d’anni ecco sorgere un profe­ta. Era un uomo illuminato, un poeta sensibile, un teologo geniale; seguiva con at­tenzione gli avvenimenti politici del suo tempo e si era reso conto che il regno di Babilonia si stava sgretolando, mentre cresceva vertiginosamente il potere di Ciro, re di Persia. Era giunto il momento di risvegliare negli esuli la spe­ranza della fine della schiavitù e dell’imminente ri­torno nella terra dei loro padri. Cominciò a far circolare fra i deportati le sue intuizioni, i suoi presagi e le sue speranze e, per non insospettire le autorità babilonesi, che lo avrebbero potuto accusare di essere un sovversivo, fece ricorso a un linguaggio criptato, impiegò immagini che solo i figli del suo popolo erano in grado di com­prendere. Annunciò l’imminente liberazione dalla schiavitù babilonese rifacendosi ai miracoli accaduti durante l’esodo dall’Egitto e promettendo prodigi ancora maggiori.

Pochi, fra i deportati, coltivavano questa sua sensibilità spirituale. La maggioranza, sedotta dalle lusinghe della vita pagana, si era ormai integrata nella nuova realtà sociale e religiosa, aveva dimenticato il glorioso passato e considerava i richiami alle promesse fatte ad Abramo poco più che fiabe destituite di ogni valore. Questi esuli, svigoriti nella fede, incapaci di cogliere i richiami di Dio, non ebbero né il coraggio né la forza di iniziare una vita nuova e si dispersero fra i pagani. La storia della salvezza continuò senza di loro. Il peri­colo maggiore dell’esilio non fu la sua durezza, ma le sue seduzioni e le sue attrattive.

L’esperienza di questi deportati è un ammonimento per chi, come loro, si adatta a una vita banale e senza prospettive, anche se comoda, e rifiuta i pressanti inviti del Signore a lasciarsi liberare, a guardare al futuro con gli occhi di Dio.

Il messaggio di questo profeta è dunque rivolto anche a noi.

 Inizia con un invito pressante: “Consolate, consolate il mio popolo, gridate a Gerusalemme che è finita la sua schia­vitù… perché ha ricevuto il doppio castigo per tutti i suoi peccati” (vv. 1-2). Come i ladri che dovevano pagare il doppio di ciò che avevano rubato (Es 22,3), Israele aveva scontato i suoi errori, li aveva pagati duramente, oltremisura, proprio come sempre accade a chi si discosta dai cammini di Dio.

Nel linguaggio corrente consolare equivale, il più delle volte, a pronunciare parole di conforto, comunicare un po’ di serenità a chi è afflitto, ma non modifica la situazione penosa che causa dolore. La consolazione di Dio non si riduce a una tenera carezza che rincuora; Dio consola soccorrendo chi si trova in condizioni disperate, consola il misero sollevandolo dalla polvere (1 Sam 2,8), mutando il suo lamento in danza e il suo grido in canto di gioia (Sl 30,12).

Lo Spirito santo è chiamato da Gesù Consolatore (Gv 14,15) perché, con la sua venuta, rinnova la faccia della terra (Sl 104,30).

Dio consola, cioè libera gli uomini da tutte le loro schiavitù, attraverso la sua parola, che non è fragile come l’erba che secca o caduca come il fiore che appassisce, ma è viva ed eterna (Is 40,6-8) e non ritorna mai a Dio senza aver operato ciò che egli desidera, senza aver compiuto ciò per cui è stata mandata (Is 55,10-11).

Nella seconda parte della lettura (vv. 3-5) una voce anonima grida: “Nel deserto preparate la via al Signore… ogni valle sia colmata, ogni monte e colle siano abbassati”.

La costruzione di una strada è la condizione perché Dio possa venire a consolare il suo popolo.

Un immenso deserto separa la Palestina dalla Mesopotamia e la strada che, nell’antichità, univa Babilonia alle città della costa mediterranea non lo attraversava, ma, risalendo verso nord, lo costeggiava per quasi mille chilometri. La voce misteriosa invita gli esuli a tracciare una via nuova, spaziosa e diritta, che permetta di giungere, in modo agevole e spedito, alla meta dove il Signore li vuole condurre.

Il profeta accumula una serie di immagini per evidenziare gli impegni che chi vuole fare spazio a Dio nella propria vita si deve assumere. Chiede di preparare la via al Signore, non una via che conduca l’uomo a Dio, ma una che permetta a Dio di giungere all’uomo.

L’apertura di questa nuova strada indica la disposizione interiore ad abbandonare i cammini antichi, quelli che Dio ha sempre rifiutato: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri e le vostre vie non sono le mie vie” (Is 56,7-8). I monti da abbassare e le valli da colmare rappresentano gli impedimenti all’incontro, alla comunicazione, alla reciproca stima fra i popoli di diversa cultura, razza, religione. Solo rimuovendo questi ostacoli è possibile preparare la via al Signore, via dell’intesa, del perdono, della riconciliazione.

In una visione grandiosa, nella terza parte della lettura (vv. 9-11) il profeta descrive il ritorno degli esuli nella città santa. Non li guida un uomo, com’era accaduto durante l’esodo dall’Egitto, ma è il Signore stesso che li precede e, come un pastore, conduce le sue pecore, “portando in braccio gli agnellini e conducendo pian piano le pecore madri” (v. 11).

L’immagine è commovente, mostra la tenerezza di Dio nei confronti dei più deboli. Tenero, dolce, paziente, egli rispetta i tempi e i ritmi spirituali di ognuno: apprezza chi cammina spedito, ma rivolge le sue attenzioni e premure a chi avanza con fatica, a chi si attarda lungo il cammino.

Quando il gruppo degli esuli è ormai vicino alla città, ecco alcuni staccarsi dal gruppo e correre avanti per annunciare la “lieta notizia” della liberazione. Sion è invitata dal profeta a divenire annunciatrice di “liete notizie”. Il suo messaggio di gioia, il “vangelo” da lei proclamato è: Dio non abbandonerà mai l’uomo, lo andrà sempre a cercare in ogni terra di schiavitù, lo prenderà fra le braccia e lo accompagnerà lungo il cammino che conduce alla libertà.

Seconda Lettura (2 Pt 3,8-14)

8 Una cosa però non dovete perdere di vista, carissimi: davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo. 9 Il Signore non ritarda nell’adempiere la sua promessa, come certuni credono; ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi.
10 Il giorno del Signore verrà come un ladro; allora i cieli con fragore passeranno, gli elementi consumati dal calore si dissolveranno e la terra con quanto c’è in essa sarà distrutta.
11 Poiché dunque tutte queste cose devono dissolversi così, quali non dovete essere voi, nella santità della condotta e nella pietà, 12 attendendo e affrettando la venuta del giorno di Dio, nel quale i cieli si dissolveranno e gli elementi incendiati si fonderanno! 13 E poi, secondo la sua promessa, noi aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali avrà stabile dimora la giustizia.
14 Perciò, carissimi, nell’attesa di questi eventi, cercate d’essere senza macchia e irreprensibili davanti a Dio, in pace.

I primi cristiani erano convinti che il Signore Gesù avrebbe presto cambiato il mondo, ma, dopo alcune decine d’anni, si erano resi conto che le loro speranze venivano deluse. Cominciarono a meravigliarsi del ritardo e sorsero i primi dubbi sulla fedeltà di Dio alle sue promesse. I miscredenti deridevano le loro attese e chiedevano beffardi: “Quando si realizzerà la promessa della sua venuta? Da quando i nostri padri hanno chiuso gli oc­chi, tutto rimane come all’inizio della creazione” (2 Pt 3,4).

A questi cristiani in difficoltà un pastore d’anime, vissuto nella seconda metà del I secolo d.C., rivolge una parola di incoraggiamento e chiarisce i motivi del ritardo della venuta del Signore.

Il brano che ci viene proposto oggi riprende due di queste ragioni. Anzitutto il modo con cui Dio misura il tempo è diverso dal nostro: per lui mille anni sono come un giorno (v. 8) e, se egli non distrugge il mondo, malgrado trabocchi di iniquità, è perché vuole che tutti gli uomini abbiano il tempo di convertirsi e di salvarsi (v. 9). Non affretta i tempi perché rispetta l’uomo e cerca di conquistarlo al suo amore. Il suo apparente ritardo va letto come un segno della sua misericordia, della sua pazienza e del suo desiderio di non perdere alcuno dei suoi figli.

L’autore della lettera intende poi chiarire un equivoco: la venuta del Signore non va immaginata come un suo ritorno nella gloria, per annientare – come predicano, anche oggi, alcune sette apocalittiche – i suoi nemici. Dietro questa concezione si cela l’idea che la sua prima venuta nella mangiatoia di Betlemme e il suo sacrificio sul Calvario siano stati un fallimento e che egli ritorni per attuare, con la forza, quel progetto che non gli era riuscito di realizzare con la dolcezza e con l’amore.

No. Tutte le sue venute sono gloriose, tutte sono rivelazioni della sua bontà, della sua giustizia, della sua volontà di non perdere alcuna delle sue creature.

Vangelo (Mc 1,1-8)

 1 Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio.
2 Come è scritto nel profeta Isaia:
“Ecco, io mando il mio messaggero davanti a te,
egli ti preparerà la strada.
3 Voce di uno che grida nel deserto:
preparate la strada del Signore, raddrizzate i suoi sentieri”,
4 si presentò Giovanni a battezzare nel deserto, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati.
5 Accorreva a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati.
6 Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, si cibava di locuste e miele selvatico 7 e predicava: “Dopo di me viene uno che è più forte di me e al quale io non son degno di chinarmi per sciogliere i legacci dei suoi sandali. 8 Io vi ho battezzati con acqua, ma egli vi battezzerà con lo Spirito Santo”.

Inizio del vangelo di Gesù Cristo, figlio di Dio” (v. l). Un versetto che sembra inutile: che bisogno c’era di dar rilievo al fatto che siamo di fronte alla prima riga del vangelo? Si tratta invece di una frase introduttoria composta con attenzione da Marco. Con la prima parola del suo libro egli ha voluto richiamare ai suoi lettori l’inizio del libro della Genesi: “In principio Dio creò il cielo e la terra”.

Il mondo, uscito buono dalle mani di Dio, si era poi corrotto e gli israeliti, da molti secoli, erano in attesa che Dio realizzasse la sua promessa: “Io creo nuovi cieli e una nuova terra; non si ricorderà più il passato” (Is 65,17).

Eccola – esclama l’evangelista – la lieta notizia: la realtà nuova è sorta, la potete verificare, nel mondo è presente il regno di Dio.

“Dove, come e quando ha avuto origine il mondo nuovo nel quale noi siamo entrati mediante la fede? – chiedono i cristiani del I secolo d.C. – Qual è la nostra storia?”.

Per rispondere a queste domande, negli anni 60 d.C., quando ancora molti testimoni oculari sono vivi, a Roma si decide di scrivere un testo ufficiale che racconti l’origine e presenti il contenuto della “lieta notizia” e, per redigerlo, viene incaricato Marco, un discepolo molto stimato, identificato dalla tradizione con il “figlio di Maria”, la proprietaria della casa dove era solita riunirsi la prima comunità cristiana di Gerusalemme (At 12,12-17). Potrebbe essere quel giovinetto che, al momento della cattura di Gesù, si trovava al Getsèmani e che fuggì via nudo quando le guardie afferrarono il lenzuolo in cui era avvolto (Mc 14,51).

Marco avrebbe potuto sintetizzare il vangelo in dense formule teologiche, ha scelto invece un altro genere letterario, il racconto.

Tutto è cominciato – scrive – quando Giovanni si è presentato nel deserto di Giuda per chiamare il suo popolo alla conversione e Gesù di Nazaret si è recato da lui per essere battezzato. Lì ebbe inizio la nostra storia, lì è cominciato il vangelo.

Per molti i vangeli sono solo i quattro libri in cui sono narrati gli avvenimenti della vita di Gesù; eppure, l’uso di chiamare vangeli questi testi è stato introdotto varie decine di anni dopo che erano stati scritti. Prima questo termine non indicava un libro, ma semplicemente una lieta notizia recata da un messaggero. Erano vangeli gli annunci di vittoria, di avvenimenti fortunati, di accordi di pace e, soprattutto, le notizie riguardanti la nascita, la vita, le imprese gloriose dell’imperatore di Roma, perché suscitavano speranze di benessere, di salute, di pace. Chi le udiva trasaliva di gioia. Nella celebre iscrizione di Priene, in Asia Minore, risalente all’anno 9 d.C., si dice che il giorno della nascita di Augusto “è stato per il mondo l’inizio dei vangeli ricevuti grazie a lui”.

Quando Marco scrive il suo libro, Augusto è morto da più di cinquant’anni ed è quindi possibile fare un bilancio di ciò che è accaduto dopo di lui: le sue legioni hanno posto fine ai disordini che hanno sconvolto Roma per un secolo, con lui è cominciato un periodo di prosperità e di pace in tutto il bacino del Mediterraneo e molti hanno pensato che fosse iniziata l’età dell’oro. Invece la sua nascita non ha segnato per il mondo l’inizio di notizie perennemente liete. Dei primi dodici cesari, sette sono morti di morte violenta, Caligola e Nerone non sono stati certo esemplari e, proprio quando Marco mette mano alla sua opera, scoppia la violenta guerra civile che porta al potere la famiglia dei Flavi.

Riprendendo il termine vangelo, Marco intende dire ai suoi lettori: i vangeli degli imperatori hanno tradito le attese, la lieta notizia che non delude è un’altra: è Gesù, unto del Signore, figlio di Dio.

Dopo il versetto iniziale, viene introdotto in scena (vv. 2-4) il Battista, un asceta che ha fissato la sua dimora nel deserto di Giuda e che vive ai margini delle strutture sociali, politiche e religiose. È figlio di un popolo che da secoli è in cammino: è uscito dall’Egitto per entrare nella terra promessa, poi è divenuto di nuovo schiavo a Babilonia ed è stato ricondotto da Dio a Gerusalemme; quando credeva di essere finalmente libero, ecco presentarsi Giovanni, figlio di Zaccaria, che lo invita a ripartire: “Preparate – esortava – la strada del Signore, raddrizzate i suoi sentieri” (v. 3). Sono parole già udite: sono quelle del profeta anonimo che, a Babilonia, quasi sei secoli prima, incoraggiava gli esuli a ritornare nella loro terra.

Molti raccolgono questo invito, escono dalla Giudea e accorrono al Giordano per farsi battezzare. Hanno capito che è necessario ripetere l’esperienza dell’esodo, che devono rimettersi in cammino per raggiungere la vera terra promessa. Non è la Palestina la meta ultima del popolo di Dio.

Verso quale patria il Signore li vuole condurre? Ancora non lo sanno, né conoscono il nuovo Mosè che li guiderà.

Particolare risalto viene dato dall’evangelista all’abbigliamento e al cibo frugale di Giovanni: “Indossava una pelle di cammello e aveva ai fianchi una cintura di cuoio; si nutriva di locuste e di miele selvatico” (v. 6). Non passeggiava in morbide vesti, come sono soliti fare coloro che vivono nei palazzi delle città; non si nutriva dei prodotti dei campi coltivati, ma di ciò che si trova o cresce spontaneamente nel deserto. Il suo era un ri­fiuto della società corrotta e frivola che, avendo smarrito il senso grandioso del semplice, aveva dimenticato anche il suo Dio.

Israele, la sposa, doveva tornare nel deserto per essere ricuperata all’affetto del suo Signore che l’attendeva: “La attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore. Là canterà come nei giorni della sua giovinezza, come quando uscì dal paese d’Egitto (Os 2,16-17).

Il Battista aveva una missione da svolgere: preparare la strada per questo incontro d’amore. Lo strano abbigliamento che lo contraddistingueva era quello dei profeti (Zc 13,4) e, in particolare, di Elia che, come Giovanni, “indossava una pelle non lavorata e aveva ai fianchi una cintura di cuoio” (2 Re 1,8).

Il contenuto della predicazione del Battista (vv. 7-8) era l’annuncio della venuta di uno, più forte di lui, che avrebbe battezzato con lo Spirito santo.

Battezzare significa immergere. Giovanni faceva entrare nell’acqua coloro che accoglievano il suo invito alla conversione. Il gesto esprimeva la rottura definitiva con la condotta anteriore e la decisione di condurre una vita completamente nuova.

Questo battesimo però non era sufficiente: l’acqua del Giordano non comunicava la vita, lavava solo il corpo. Era necessaria un’altra acqua, un’acqua che entrasse nell’uomo e agisse in lui come linfa vitale. Il Battista la prometteva e indicava anche colui che l’avrebbe donata.

L’acqua che sommerge uccide; invece l’acqua che entra, quella che è assimilata dalle piante, dagli animali, dall’uomo, è vita. In queste due funzioni dell’acqua sono richiamati i due momenti del nostro battesimo. La morte al passato è indicata dall’immersione nell’acqua, il dono dello Spirito è rappresentato dall’acqua viva offerta da Cristo: “Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me” (Gv 7,38).


AUTORE: p. Fernando ArmelliniFONTE: Settimana News

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