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p. Fernando Armellini – Commento al Vangelo del 5 Maggio 2024

Domenica 5 Maggio 2024
Commento al brano del Vangelo di: Gv 15, 9-17

Padre Fernando Armellini, biblista Dehoniano, commenta il Vangelo di domenica 5 Maggio 2024.
Se sei interessato a tutti i sui commenti al Vangelo, puoi leggerli qui.

Siamo amati, per questo amiamo

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Baal, il grande dio adorato in tutto l’antico Medio Oriente, era il signore della pioggia, il “cavaliere delle nubi” dal quale dipendeva la fecondità dei campi e degli animali. A lui bruciarono incenso e piegarono le ginocchia anche gli israeliti, suscitando la gelosia del Signore e lo sdegno dei profeti. Nella Bibbia, il suo nome compare spesso accompagnato da quello di un luogo – Baal-Safon, Baal-Peor, Baal-Gad…– corrispondente al monte su cui sorgeva il santuario in cui era venerato. Come lui, anche le altre divinità di tutta quell’area geografica erano identificate con il nome del luogo dove i devoti si recavano per rendere loro culto.

In questo ambiente culturale, sorprende che gli israeliti concepissero il loro Dio come colui che lega il proprio nome non a un luogo, ma a delle persone: “Io sono il Dio di tuo padre – dichiara a Mosè – il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe” (Es 3,6); “Io sono con te – ripete spesso al suo popolo – non smarrirti, perché io sono il tuo Dio” (Is 41,4).

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Israele aveva compreso che il Signore legava il suo cuore all’uomo, che si prendeva cura del suo popolo, tuttavia lo immaginava anche pronto a castigare “la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli, fino alla terza e quarta generazione” (Es 34,7). Aveva contemplato l’opera delle sue mani, ma non aveva ancora visto il suo volto di Emmanuele – Dio con noi – e, soprattutto, non aveva ancora scoperto il suo cuore.

Il discepolo che, durante la cena, reclinò il suo capo sul petto del Signore, ci ha rivelato che Dio è amore, solo amore e che chiunque ama è da lui generato.

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Quando comprenderò l’Amore, imparerò ad amare”.

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Prima Lettura (At 10,25-27.34-35.44-48)

25 Mentre Pietro stava per entrare, Cornelio andandogli incontro si gettò ai suoi piedi per adorarlo. 26 Ma Pietro lo rialzò, dicendo: “Alzati: anch’io sono un uomo!”. 27 Poi, continuando a conversare con lui, entrò e trovate riunite molte persone disse loro: 34 “In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, 35 ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto”.
44 Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo scese sopra tutti coloro che ascoltavano il discorso. 45 E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si meravigliavano che anche sopra i pagani si effondesse il dono dello Spirito Santo; 46 li sentivano infatti parlare lingue e glorificare Dio. 47 Allora Pietro disse: “Forse che si può proibire che siano battezzati con l’acqua questi che hanno ricevuto lo Spirito Santo al pari di noi?”. 48 E ordinò che fossero battezzati nel nome di Gesù Cristo. Dopo tutto questo lo pregarono di fermarsi alcuni giorni.

Il fatto accadde a Cesarea, la splendida capitale fondata da Erode il grande.

In questa città risiedeva il procuratore romano e vi stazionava una forte guarnigione militare. Uno dei comandanti del presidio si chiamava Cornelio, un centurione che, come il suo collega di Cafarnao (Lc 7,1-10), coltivava un profondo rispetto per la religione d’Israele. Pregava, elargiva elemosine, amava il popolo d’Israele, ma questo ancora non bastava per essere associato agli eredi delle promesse fatte ad Abramo. Non si era sottoposto alla circoncisione e quindi rimaneva un impuro, inavvicinabile dai pii israeliti e Pietro era uno di questi.

Pietro era un tradizionalista, orgoglioso della propria elezione (Dt 7,6; 26,19), aveva sempre evitato i contatti con gli stranieri, per non essere indotto all’idolatria. Aveva difeso la propria identità religiosa, tenendo presente che una nitida linea di demarcazione lo separava dai pagani. Aveva osservato con scrupolo i divieti e le prescrizioni che i rabbini gli avevano insegnato, ma, trascorsi alcuni anni dalla Pentecoste, gli eventi cominciarono a far vacillare le sue certezze. Un dubbio, sempre più insistente, lo tormentava: le discriminazioni, imposte in nome di Dio, erano davvero volute da Dio?

Non sapeva cosa fare, brancolava nel buio. Decidere è sempre recidere e, nel caso suo, voleva dire recidere con il passato, la sua mentalità, la sua cultura, la sua religiosità oppure recidere con l’irrompente novità dello Spirito che lo mandava là, dove c’era una famiglia che lo aspettava in preghiera.

Pietro non era il tipo portato alla trasgressione, esitava, ma alla fine ci credette e, con sei altri discepoli, si diresse verso Cesarea.

Lo attendeva Cornelio che gli andò incontro e lo accolse gettandosi ai suoi piedi per adorarlo. Era la prassi abituale con cui si riveriva un “uomo di Dio” (2 Re 4,27), ma Pietro reagì: “Alzati – esclamò – anch’io sono un uomo!” (v. 26). Rifiutò l’ossequio, anche se si trattava di un semplice complimento, di una normale manifestazione di rispetto; ricordava troppo bene con quale insistenza e con quanta chiarezza il Maestro aveva condannato la ricerca di onori e la smania dei primi posti (Lc 22,24-27) e non voleva che simili cerimoniali, ai quali tanto tenevano gli scribi (Mc 12,38-39), fossero introdotti nella comunità cristiana.

Poi continuò: “In verità comincio a rendermi conto che Dio non fa preferenze di persone” (v. 34). Non tutto gli era ancora chiaro, ma cominciava a capire una verità fondamentale introdotta da Cristo nel mondo: non esistono due categorie di persone, quelle pure e quelle impure, per Dio tutti gli uomini sono puri, perché tutti sono sue creature, tutti sono suoi figli.

Pietro non era responsabile della sua chiusura mentale, era solo vittima di una concezione atavica che lo induceva a pensare in modo esclusivista. Lo Spirito si incaricò di sconvolgere gli schemi dettati da presunti privilegi razziali e mostrò che poteva scendere sui pagani prima ancora che fosse loro amministrato il battesimo. Con il suo dinamismo irresistibile, lo Spirito testimoniava la libertà dell’amore incondizionato di Dio che raggiunge ogni uomo, anche se non appartiene all’istituzione Chiesa.

L’abbraccio fra il gruppo di giudei, giunti a Cesarea assieme a Pietro, e i pagani della famiglia di Cornelio rappresenta l’incontro di due popoli che, fino a quel momento, avevano coltivato preconcetti e pregiudizi reciproci ed è il segno del regno, del mondo nuovo in cui ogni discriminazione scomparirà completamente.

Seconda Lettura (1 Gv 4,7-10)

Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore.
In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui.
10 In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati.

In un’accesa disputa, riferitaci da Giovanni, ai giudei che affermavano: “Il nostro padre è Abramo”, Gesù rispose: “Se siete figli di Abramo, fate le opere di Abramo! Voi fate le opere del padre vostro”. Quelli reagirono: “Noi abbiamo un solo padre, Dio!” e Gesù replicò: “Voi avete per padre il diavolo e compite i desideri del padre vostro che è stato omicida fin da principio” (Gv 8,38-44).

Solo Gesù poteva dichiarare di essere l’unigenito di Dio, solo in lui si sono manifestate in pienezza le opere del Padre suo (Gv 9,3), tuttavia sono chiamati e sono realmente figli di Dio anche tutti coloro sul cui volto traspaiono le sembianze del Padre celeste: “I costruttori di pace” (Mt 5,9), coloro che amano i nemici e pregano per i persecutori (Mt 5,44), coloro che si comportano da padri per gli orfani e le vedove (Sir 4,10). Si tratta di una somiglianza dalla quale anche il più grande santo rimarrà infinitamente distante, ma verso la quale si deve continuamente tendere, infatti Paolo esorta: “Fatevi imitatori di Dio, quali figli carissimi” (Ef 5,1).

Nella prima parte del brano di oggi (vv. 7-8), Giovanni riprende questa immagine della figliolanza per indicare qual è il fondamento, quale l’origine del comandamento dell’amore. Non deriva da una disposizione esterna data da Dio, ma è la manifestazione necessaria di una realtà nuova, presente nell’intimo dell’uomo, il seme divino che Dio ha posto in lui.

Chi è Dio? Non sappiamo nemmeno chi siamo noi, come potremmo definire Dio? Giovanni non dà una definizione, ma spiega come egli si manifesta: non come legislatore e giudice, come ritenevano i rabbini, ma come amore. “Amiamoci gli uni gli altri – dice – perché l’amore viene da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore”.

L’amore è la vita di Dio, ed è questo amore che egli comunica ai suoi figli. Chi ama, anche se non appartiene all’istituzione ecclesiale, ha in sé la vita di Dio, è suo figlio.

Nella seconda parte del brano (vv. 9-10) spiega cosa significa amare.

L’amore di Dio si è manifestato donandoci ciò che aveva di più prezioso, il suo Unigenito; lo ha inviato nel mondo, non come premio per le nostre opere buone, ma come “vittima di espiazione dei nostri peccati”. Ci ha amati, non perché eravamo buoni, ma ci ha resi buoni amandoci gratuitamente: “Mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi” (Rm 5,6).

È questo amore generoso e disinteressato che si manifesta anche nei figli di Dio.

Non si riceve la figliolanza divina come ricompensa perché si ama. È la presenza di questo amore che rivela chi è divenuto figlio di Dio.

Vangelo (Gv 15,9-17)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. 10 Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. 11 Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.
12 Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. 13 Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. 14 Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando. 15 Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi.
16 Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. 17 Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri”.

Il vangelo di oggi è la continuazione di quello della scorsa domenica. Dopo aver introdotto l’allegoria della vite e dei tralci, Gesù spiega ciò che avviene in coloro che rimangono uniti a lui.

Ci sono infatuazioni passeggere per Cristo, dettate dall’emozione e dall’entusiasmo momentanei, e c’è un attaccamento duraturo che nessuna forza avversa è capace di infrangere. Questa adesione salda e decisa è espressa da Giovanni con il verbo rimanere (ménein in greco) che ricorre ben sette volte nella parabola della vite ed è ripreso altre tre all’inizio del nostro brano (vv. 9-10).

Gesù rimane nell’amore del Padre perché è sempre unito a lui, gli è fedele e fa sempre “le cose che sono gradite al Padre” (Gv 8,29); i discepoli possono divenire nel mondo un riflesso di questa unione solo se rimangono nel suo amore e osservano i suoi comandamenti: “Se qualcuno mi ama osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23).

In queste parole e in queste immagini, dense di misticismo, si percepisce, nitido, il richiamo all’eucaristia, il sacramento dove si celebra e si realizza questa unione intima con il Signore: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui” (Gv 6,56).

Ecco la ragione per cui, prima di accostarsi alla comunione, ognuno deve “esaminare se stesso”, per verificare se davvero è deciso a rimanere nel Signore, altrimenti il suo gesto è una menzogna e “mangia e beve la propria condanna” (1 Cor 11,28-29).

In questi primi versetti (vv. 9-10), Gesù non presenta il suo amore come un modello da imitare, ma come una vita che continua nei discepoli che, nel battesimo, sono stati inseriti in lui, divenendo sue membra. Così è lui che attua in loro. Nei discepoli è Cristo che annuncia la lieta notizia al povero, ama, cura, consola, asciuga le lacrime della vedova e dell’orfano.

Frutto di questa unione con Cristo e con il Padre e dell’osservanza dei suoi comandamenti è la pienezza della gioia (v. 11).

Per sette volte nel vangelo di Giovanni ricorre il termine gioia. Il primo a impiegarlo è il Battista quando afferma: “L’amico dello sposo esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è compiuta” (Gv 3,29); poi è sempre Gesù che, con insistenza, ripete ai discepoli la promessa della sua gioia.

È ancora radicata la convinzione che rimanere in Cristo equivalga a rinunciare a ciò che rende felici. Non è così. Gesù mette in guardia, sì, dalle gioie vane e illusorie che derivano dall’egoismo, dalla ricerca del piacere ad ogni costo, ma propone la gioia autentica, quella che proviene dall’unione con lui e con il Padre. Questa gioia, l’unica vera e duratura, non può però essere ottenuta che passando attraverso il dolore: “Voi piangerete e vi rattristerete, ma il mondo si rallegrerà. Voi sarete afflitti, ma la vostra afflizione si cambierà in gioia” (Gv 16,20). Tentare cammini alternativi, scegliere strade facili e spaziose significa perdersi, allontanarsi dalla meta.

Dopo aver parlato dei suoi comandamenti, come se fossero molti, Gesù dichiara: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati”, come se si trattasse di uno soltanto (v.12).

È vero, i comandamenti sono molti, ma sono soltanto esplicitazioni di un unico comandamento, quello che Gesù ha praticato in modo perfetto: l’amore all’uomo. È al bene dell’uomo che devono sempre fare riferimento tutte le scelte morali, le disposizioni, le leggi, perché è l’unico modo che abbiamo di mostrare a Dio il nostro amore: “Chi non ama il fratello che vede non può amare Dio che non vede” (1 Gv 4,20) e chi ama il fratello ha adempiuto tutta la legge, “tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: ama il prossimo tuo come te stesso” (Gal 5,14; Rm 13,8-10).

Durante l’ultima cena, dopo aver lavato i piedi ai discepoli, aveva già detto: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,34-35).

Confrontando le due formule con cui è presentato l’unico comandamento, si nota una leggera, ma significativa differenza. Prima il comandamento era “nuovo”, ora è il “suo”, quasi non fosse più “nuovo”.

C’è una ragione per cui è stato introdotto il cambiamento. L’evangelista scrive dopo gli avvenimenti della Pasqua, quando Gesù è già passato da questo mondo al Padre. Per primo egli ha praticato il comandamento nuovo: ha amato fino a donare tutto se stesso. Ecco la ragione per cui il comandamento non è più nuovo, ma è divenuto il suo, quello che egli ha praticato. La misura dell’amore al prossimo non è più quella indicata dall’AT: come te stesso (Lv 19,18), ma: come io vi ho amati e, con questa espressione, Gesù si riferisce all’amore sommo che egli ha manifestato sulla croce.

Rimane in lui solo chi è sempre disposto a “donare la vita”, perché “nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (v. 13) e “Cristo ci ha amati e ha dato se stesso per noi” (Ef 5,2).

Il suo comandamento non va inteso come una legge impegnativa, precisa e ben definita in tutti i dettagli. È un orientamento di vita che, nelle sue implicazioni concrete, deve essere stabilito momento per momento; esige costante attenzione ai bisogni del fratello, fantasia, discernimento e coraggio di prendere decisioni anche a rischio di sbagliare.

Gesù non chiama i suoi discepoli servi, ma amici (vv. 14-15).

Non è subito chiara questa affermazione perché, nella Bibbia, “servo di Dio” è un titolo onorifico, attribuito a personaggi come Abramo, Mosè, Davide, i profeti. Anche il vecchio Simeone, Paolo, Pietro e tanti altri si qualificano come “servi” e Maria si definisce “la serva del Signore” (Lc 1,38). Gesù, soprattutto, è indicato dal Padre con le parole: “Ecco il mio servo che io ho scelto” (Mt 12,18) e, nel celebre canto della Lettera ai filippesi, Paolo ricorda che egli “assunse la condizione di servo” (Fil 2,7). Da qui l’esortazione a divenire servi gli uni degli altri (Mc 9,35).

Gesù dà la ragione per cui non chiama servi, ma amici i suoi discepoli.

Il servo è coinvolto solo esteriormente nel progetto del padrone, è un esecutore di ordini e di compiti che gli vengono affidati. L’amico invece è un confidente, è colui con il quale si coltiva una comunione di vita, di progetti e di intenti. L’amico è felice quando può rendere un favore alla persona amata, non le nasconde nulla, non chiede un compenso per il servizio prestato.

Gesù chiama “amici” i suoi discepoli perché a loro ha rivelato il progetto del Padre (v. 15) e li ha chiamati a collaborare con lui alla sua realizzazione.

La comunità cristiana è composta di “amici”, rimangono quindi esclusi i rapporti superiore-suddito, padrone-schiavo, maestro-discepolo; tutti i suoi membri sono sullo stesso piano e godono di pari dignità.

Dopo aver lavato i piedi agli apostoli, Gesù ammette di essere “maestro e signore”, ma dà un significato completamente nuovo a questi titoli: “il primo”, colui che è “grande” nella comunità è chi lava i piedi all’ultimo. Non c’è posto per chi, invece di servire, ambisce a cariche prestigiose e a onori.

Tutto il brano è un inno all’amore. Ma chi va amato?

L’esortazione è chiaramente rivolta solo ai discepoli e l’amore pare ristretto al loro gruppo. Ci si chiede allora per quale ragione Gesù non abbia richiesto un amore universale, esteso a tutti, anche ai nemici, come ha fatto nel discorso della montagna (Mt 5,44).

È vero, qui Gesù si rivolge direttamente solo ai membri della comunità cristiana e solo a loro raccomanda di essere uniti e di amarsi reciprocamente. È una limitazione, ma c’è un motivo: prima di parlare di amore e di pace agli altri, è necessario coltivare l’amore e la pace nella chiesa.

Solo una comunità i cui membri fanno un’esperienza viva e profonda di accoglienza, di sopportazione, di perdono, di servizio reciproco, di condivisione dei beni può annunciare al mondo fraternità e pace.

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